Che la poesia non influenzi il corso della Storia è ormai noto a molti, perfino ad alcuni poeti. Zbigniew Herbert, per fare un nobile esempio riconosciuto da tempo come uno dei massimi esponenti della poesia polacca del secolo scorso, lo rimarcava con sconsolata ironia: «Non è il barometro a cambiare il tempo». Forse anche per questo, malgrado avesse iniziato a comporre versi da adolescente, si tenne lontano dai circoli letterari fino al 1956, quando aveva superato i trenta da un bel po’. Non era la sfiducia nei suoi mezzi di artista a bloccarlo, ma il clima politico, la censura stalinista subentrata all’occupazione nazista. Essere sulla scena prima del 1956, ricorda Czeslaw Milosz, comportava un prezzo salato per un artista: rinunciare al proprio gusto, e Herbert non era disposto a pagarlo. Fu per queste stesse ragioni – le scure vicissitudini della Storia – che, sempre in quegli anni, con l’allentarsi del controllo, il poeta cominciò a viaggiare verso ovest, alla scoperta dell’altra faccia dell’Europa da cui era stato tagliato fuori, come chiunque vivesse nell’Est. Un esilio nomade e volontario che non era distacco da casa, ma ricerca di radici, peraltro manifeste fin nel nome, Herbert, di origine inglese.

Esplorò città, musei, cattedrali, divorando ogni fase della cultura europea. Risalì alle fonti della nostra civiltà, un fiume tortuosissimo che dall’Illuminismo lo condusse ai cavernicoli nelle grotte di Lascaux, passando per i pittori di Orvieto, i grandi mecenati senesi, e poi mastri muratori, baroni, eretici e inquisitori. Tappe da cui scaturirono testi poi raccolti in un corposo volume da noi ancora inedito, e il cui titolo, Un barbaro nel giardino, dice molto dei sentimenti che muovevano il poeta. Gli fece seguito, a distanza di parecchi anni, Natura morta con briglia, ora tradotto da Andrea Ceccherelli per Adelphi, di dimensioni più ridotte e soprattutto circoscritto nel tema. Si concentra infatti sui Paesi Bassi e sulla loro breve ma mirabile età dell’oro: un secolo appena, il Diciassettesimo. Un momento della Storia per certi versi insolito, per non dire unico, che infatti ha attirato l’attenzione di scrittori e studiosi, da Henry James a Johan Huizinga, e più recentemente Simon Schama e Steven Nadler. Molti di questi, se non pressoché tutti, si sono serviti della pittura di quel secolo come lente con cui osservare la società olandese in ogni suo aspetto – fosse l’affermarsi della borghesia mercantile o il culto della libertà, la navigazione o gli immancabili tulipani, la scienza dell’ottica, il pensiero di Spinoza o il culto dello spazio domestico. Fondamentali in questo senso restano Arte del descrivere di Svetlana Alpers e L’invenzione del quadro di Victor I. Stoichita che, sebbene non focalizzato soltanto sul Seicento olandese, trova in quel periodo il suo punto di caduta.

Anche Herbert individua nella pittura una bussola imprescindibile, e non potrebbe fare altrimenti: gli tocca constatare quanto fosse onnipresente. Ma forse, a voler essere precisi, più che di pittura bisognerebbe parlare di quadri, ovvero di una pittura diffusa, polverizzata in tele spesso di piccole dimensioni, facili da trasportare. Una pittura, cioè, molto diversa da quella praticata in Italia fino ad allora, perlopiù inamovibile, concepita per luoghi ben precisi, che fossero una chiesa o il palazzo di un principe. In Olanda «sembra quasi che gli artisti cercassero di aumentare il mondo visibile della loro piccola patria, moltiplicando la realtà per le migliaia, decine di migliaia di tele su cui immortalavano litorali marini, acquitrini, dune, canali, vastiorizzonti e vedute di città». Del mondo che i pittori riproducevano con una precisione da cartografo resta poco oltreai quadri, perché in quei luoghi, alla lenta e metodica erosione operata dal tempo, si è aggiunta quella spietata del mare, che avanza sulla terra modificandone la geografia. Lo sguardo di Herbert resta dunque sospeso tra l’Olanda che gli appare nel presente e quella di un passato non meno vivo e visibile proprio perché tanto dipinto. Anche quel passato si mostra per altri versi sospeso: da un lato le lotte contro la Spagna per la conquista della libertà, la frenesia degli scambi mercantili, la rovinosa mania dei tulipani; dall’altro la quiete di certi villaggi, di certe strade, una noia tutta olandese, con case strapiene di oggetti e mobili, prima concreta e opulenta manifestazione di una borghesia che a poco a poco sarebbe diventata comune in tutta Europa. O quasi. Quasi, sì: perché è verosimile che, agli occhi di un poeta cresciuto in un mondo dove l’occhio dello stalinismo arrivava anche negli spazi domestici, anzi soprattutto in quelli, sia parso liberatorio il sonnacchioso silenzio che domina in tanti quadri del Secolo d’oro: in certe nature morte, in stanze che sembrano popolate solo da sedie. Allo stesso modo avrà pensato che non c’è lusso più grande di considerare la libertà come qualcosa di noioso, di quotidiano, di prosaico.