[Quello che segue è un articolo scritto parecchi anni fa. Il mondo era molto diverso allora, come lo ero io del resto. Parla di un ristorante di Bangkok – forse il ristorante che ricordo con più affetto – e dei Cure. Il ristorante naturalmente non esiste più. La proprietaria si è ritirata a vita privata nell’Isan con il figlio A, che ormai sarà un adulto fatto e finito e sereno, spero. I Cure esistono ancora però, ringraziando il cielo.]
Il migliore ristorante al mondo di cucina thai si trova a Bangkok, in uno di quei sudici vicoli che laggiù vengono chiamati soi. Si mangia all’aperto, tra canali di scolo e odori forti, seduti su traballanti sgabelli di plastica. Non fatevi ingannare dalle apparenze, la cucina è più che buona. La vera specialità è pero costituita dalla persona che serve ai tavoli. Un adolescente di sesso indefinibile dotato di una folta capigliatura le cui ciocche puntano in ogni direzione possibile. Da entrambe le orecchie pende un crocefisso d’argento. Nelle labbra imbellettate è incastonato un bulloncino, Generose mani di mascara evidenziano le ciglia. Indossa t-shirt nere con fantasie di teschi e jeans attillatissimi che sarà stato un’impresa trovare, visto che è più secco di un fuso. Si aggira guardingo muovendosi a scatti come i pupazzi di plastilina di Nightmare before Christmas. Strabuzza di continuo gli occhi facendo boccuccia, come appena sbarcato da un altro pianeta. Di tanto in tanto si ferma per aprire un piccola bara appesa alla cintola. Al suo interno, foderato di velluto di rosso, riposa il cellulare. Il tipo si chiama A ed è un vero spettacolo. «Lui speciale» mi ha detto una volta la proprietaria sorridendo imbarazzata alla maniera degli orientali. Mi sono limitato ad annuire. Come potevo spiegarle che è molto più che speciale? Un perfetto esemplare di goth all’altro capo del mondo. Se questo genere di sottocultura si è diffusa su scala planetaria è essenzialmente merito dei Cure. Sempre a Bangkok mi è capitato di andare al party di un produttore di film horror. Tra gli invitati, un manipolo di ragazzine che sembravano uscite da un convention di Suicide Girls. Erano in piena fibrillazione perché nel giro di un paio di settimane sarebbero volate a Singapore per andare a sentire Robert Smith e compagni dal vivo. I diretti interessati, però, quando sentono parlare di goth storcono il naso. Si considerano una band new wave. A loro avviso, hanno inciso solo un paio di album che possono essere definiti in quel modo, tutto qua. Il resto è solo musica dei Cure. «Eravamo un gruppo veramente alternativo», questa la frase che il loro frontman vorrebbe scritta sulla tomba. Per quanto, è assai probabile che un accordo su cosa veramente furono, e continuano a essere, non sarà mai trovato. Secondo le creature di South Park, Disintegration è «the best album EVER». Ma quando Rolling Stone ha stilato la sua classifica dei migliori album di sempre, lo si è visto relegato al 326mo posto. Qualunque cosa siano, un fatto è comunque certo: i Cure e il culto di cui sono oggetto rappresentano un fenomeno unico.

A dispetto delle tante ferali discese nel pop e delle reiterate minacce di sciogliere la band, i fan pendono dalle labbra di Smith e dei suoi lamentosi gorgheggi. Sorge il sospetto che il segreto della loro longevità consista nella paradossale capacità di restare fedeli a se stessi anche quando si rinnegano. Soprattutto quando si rinnegano. Prima dei 25 anni mi uccido, aveva garantito a suo tempo Smith. Poi ci ha ripensato. Allo scoccare dell’ora fatale si rese conto che tutto sommato aveva combinato qualcosa di buono nella vita. Dunque: perché rinunciarvi? Nonostante la cattiva abitudine di bere troppa birra, ha cominciato a sentirsi più allegro. Meglio cambiare prospettiva. Ora dice che ci si vede, a fare quello che fa, fino a sessant’anni, e non gliene frega niente se la gente lo prenderà per scemo. Non si fatica a credergli, dato che è ormai prossimo alla soglia dei cinquanta. Non che Smith e compagni non abbiano passato momenti complicati. Sono stati adolescenti anche loro e, si sa, a una certa età l’autodistruzione è un’opzione tremendamente affascinante. A salvarli è stato il fatto che da quella fase irresponsabile dell’esistenza, i Cure non sono mai usciti. Non sono mai veramente diventati adulti, tanto per essere chiari. Si obietterà che il rifiuto di crescere sia un difetto comune a molte rockstar. Verissimo. Ma i Cure ne hanno fatto una scienza, ricavandone il loro punto di forza. «Crescere implica una serie di responsabilità, il dover fare cose che in realtà non si vogliono fare. Credo che nessuno di noi crescerà mai in quel senso. Rifiutare di crescere è come rifiutare di accettare i propri limiti» ha ammesso candidamente e in più di una circostanza Robert Smith. Ha anche spiegato che la metà delle sue canzoni parlano di «un’idea orribile che però è la migliore idea possibile del mondo»: la famosissima isola che non c’è, quella di Peter Pan. Il ragazzo che non voleva crescere, per l’appunto. Come tanti altri gruppi più o meno ascrivibili al genere goth, i Cure provengono dal punk. Diversamente dagli altri, però, per loro si tratto più di un’opportunità che di un movimento sociale, una scusa per fare baldoria e mettere in piedi una band. Del resto, essendo cresciuti lontani dalle multiformi fibrillazioni del grande zoo londinese, Smith e Tolhurst non avevano granché contro cui ribellarsi. Vivevano in una cittadina perbene del Sussex dove se giravi con una spilla da balia infilata da qualche parte ti massacravano di botte. Non avendo senso correre un simile rischio, si limitarono a intendere il punk come una condizione mentale. Per fare qualcosa non devi essere necessariamente bravo a farla, ergo puoi fare tutto: più o meno era questo il messaggio che recepirono. E proprio in virtù di questo loro atteggiamento, furono spesso guardati con sufficienza da certa critica. Nel 1981, l’anno d’oro della musica dark, vennero stroncati nei seguenti feroci termini: «I Cure non sono che trafficanti di trite atmosfere apocalittiche che avrebbero dovuto morire insieme ai Joy Division». Una sorta di ideale passaggio di testimone tra le due formazioni c’era stato, in effetti. Proprio nei giorni in cui Ian Curtis era impegnato nelle riprese di Love Will Tear Us Apart, il suo ultimo e struggente video, usciva Seventeen Seconds con il quale i Cure iniziarono l’immersione nel baratro di nichilista disperazione che nel 1984 li avrebbe portati a Pornography, l’album che ha lanciato il goth nel mondo. Allora i ragazzi avevano già adottato il loro look. Il rossetto sbafato intorno a occhi e bocca colava come sangue sotto il calore dei riflettori. Erano i tenebrosi anni in cui Smith cantava versi come «Non importa se moriamo» sopra la batteria robotica di Tolhurst. Travolta da un insostenibile senso di desolazione, nonché dall’abuso di droga e alcol, la band sfiorò il disfacimento. La svolta arriva appena un anno dopo.

Potrà sembrare una provocazione, ma il disco più importante dei Cure non è il tanto osannato Disintegration e neppure Pornography, bensì quello che molti fan della prima ora ripudiarono, The Head In The Door. Smith dichiarò che intendeva fare tabula rasa dell’immagine del gruppo, voleva rimescolare la carte, ricominciare da capo. Fatto sta che i Cure imboccarono la strada che portava dritta in cima alle classifiche di mezzo mondo. Canzoni dalle sonorità decisamente pop che funzionavo su un doppio registro. Melodie accattivanti e facili da ricordare, da un lato. Testi umorali e malinconici, dall’altro. L’obiettivo era qualcosa alla Strawberry Fields Forever, un ritorno ai beati tempi dell’infanzia quando Smith sentiva filtrare le canzoni dei Beatles dalla camera della sorella. Anche il look fu rivisto quel che tanto che serviva. La faccia seguitò a essere impiastricciata come prima. Lo stesso valeva per la capigliatura: ancora arruffata. La novità fu che non erano più tanto imbronciati. Avevano assunto un’aria gradevolmente goffa, quasi da cartone animato. Funzionò. Il video dei calzini fluorescenti volanti di In Between Days marchiò un’intera epoca. La loro musica entrò nei licei in America e da allora non ne è uscita praticamente più, se non per essere mettere radici in altre parti del pianeta accrescendo il numero dei facenti parte della sottocultura goth e non solo. Non solo, sì. Perché potranno pure non piacere, ma bisogna dargliene atto: i Cure sono la band del pop perfetto. Sono andati dritti al cuore di milioni di persone sporcando di lacca e rossetto l’immaginario contemporaneo. Dai teen horror fino a Matrix, passando ovviamente per Il Corvo e le metamorfosi di Johnny Depp guidate da Tim Burton. Per non parlare di ciò che hanno lasciato in eredità alla musica degli anni Novanta. Quel che è incredibile è che ci sono riusciti con una sorta di candido nichilismo, senza credere quasi in niente a parte il non volersi alzare presto tutte le mattine, restando ostinatamente ancorati ai dolci tormenti dell’adolescenza. Grazie a loro, starsene chiusi nella cameretta a sedici anni struggendosi di disperazione è diventata la cosa più bella del mondo. E poco male se la ragazza dei nostri sogni non vuol saperne niente di noi. Dallo stereo giunge una voce lamentosa che canta «Yesterday I got so old I felt like I could die», un dolce motivetto che non dimenticheremo mai. Lunga vita ai Cure.