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Cosa ne sarebbe di noi senza i barbari? È una storia ricorrente, quella dell’arrivo dei barbari. Vecchia quanto il mondo, più antica di Roma e della sua caduta. Talmente atavica, talmente radicata nel nostro immaginario da essere nata con l’idea stessa di civiltà e forse anche con quella di attesa, come se ogni volta che guardiamo l’orizzonte dovesse apparire qualcuno o qualcosa. Se il passato è davvero una terra straniera, come dicono alcuni, il futuro potremmo invece prefigurarcelo come un barbaro, l’orda inarrestabile che prima o poi invaderà il presente. E poco importa che i nemici siano reali o immaginari. La Storia insegna infatti che, quando non ve ne sono, l’uomo finisce per inventarseli, quasi ne avesse bisogno come il pane. È per questo che una famosa poesia di Kavafis, Aspettando i barbari, ispiratrice di racconti e romanzi, si chiude con la fatidica domanda: Cosa ne sarà di noi senza i barbari? La ritroviamo anche nelle prime pagine di Contadini e signori di Theodor Kallifatides, nonostante i barbari non abbiano alcuna intenzione di farsi aspettare né siano visti come nemici, bensì accolti con tutti gli onori e un’amirata curiosità. È il 22 giugno 1941 e basta questo per intuire che i barbari in questione sono i tedeschi al loro peggio, l’esercito nazista. Gli esiti del conflitto sono ancora incerti e molto si dovrà combattere perché vengano deposte le armi, ma per gli abitanti di Ialós la guerra è come se fosse ormai finita. Avendo la Grecia già capitolato, non ha alcun senso che il mondo si opponga a Hitler. Si stenda dunque il tappeto rosso. Non al Führer in persona ovviamente, che mai si sognerebbe di far visita a un villaggio sperduto nel sud del Peloponneso, ma ai suoi soldati. Del resto bastano loro, giacché gli ialiti non hanno mai visto un tedesco e il loro villaggio è in fondo come altri luoghi della letteratura – la Macondo di Márquez o la Yoknapatawpha di Faulkner – un mondo sospeso tra ricordo e realtà.

 

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Nella breve nota che precede il romanzo, lo scrittore ci tiene a precisare che il villaggio esiste davvero, «sia in Grecia sia in molti altri paesi», e che anche i personaggi e i fatti narrati non sono immaginari, solo cambiati quel tanto da non nuocere a nessuno. Ma in fin dei conti è poco rilevante. I villaggi sono un po’ come le famiglie, una loro estensione: si somigliano tutti quando le cose vanno bene o seguono il loro corso normale, salvo distinguersi nel momento della disgrazia. Inevitabile dunque che Ialós abbia uno scemo del villaggio, che poi tanto scemo non è, oltre a un sindaco, un maestro, un prete dongiovanni, un avvocato, un macellaio, una piazza coi suoi bar o taverne divisa in fazioni a seconda del censo, degli umori, delle chiacchiere. Questi e altri personaggi che ci sembra di conoscere da vicino, perché identici a quelli che ci aspetteremmo di trovare in un qualsiasi borgo arroccato tra i monti, acquistano una luce nuova e unica proprio grazie ai barbari, alla Storia con la esse maiuscola che irrompe in un piccolo mondo antico, sempre uguale a sé stesso, dove leggenda e pettegolezzo si mescolano fino a diventare una cosa sola. L’occupazione nazista funziona infatti come un liquido di contrasto che, tra eroismo e miseria, esalta i tratti di ognuno, mentre resistenza e collaborazionismo danno vita a varie forme di solidarietà, sospetti, rancori e in ultimo anche violenza. Le storie del villaggio si susseguono in ordine sparso, a tutta prima senza una vera ragione né tantomeno un senso apparente. Eppure finiscono sempre per intrecciarsi e acquistare una logica ferrea e fatale, in perenne bilico tra comicità e tragedia. È una logica che risponde a due vizi universali, noti in ogni luogo dalla notte dei tempi. Il primo è che la miseria porta i poveri a odiare chi è più povero ancora. L’altro è una variazione del primo: il rispetto e il timore che suscitano i potenti inducono i penultimi a disprezzare gli ultimi. Kallifatides ci fa comunque accettare con amorevole compassione tutto ciò e riesce in questa magia per il suo modo di raccontare, lo sguardo lieve e distaccato. Sempre nella nota introduttiva precisa di essere giunto a scrivere questo romanzo a distanza di molti anni dai fatti e il ricordo, si sa, attenua molte cose, invitando alla comprensione e al perdono. Ma non è solo questo. All’epoca dell’arrivo dei barbari nazisti lo scrittore era un bambino di appena tre anni, troppo piccolo per conservare una memoria diretta.

 

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C’è poi un terzo elemento, il più importante: Contadini e signori non è stato scritto in greco né in Grecia. Kallifatides è infatti un migrante, si è trasferito in Svezia nel 1964, dove si è laureato in Filosofia e ha appreso lo svedese abbastanza bene da scrivere in lingua straniera poesie, saggi, opere teatrali e romanzi. In un certo senso è un barbaro al contrario o, per meglio dire, un uomo che anziché aspettare i barbari nel suo villaggio, ha preferito cercarsi una nuova vita a casa loro. Vivere in un altro paese e scrivere in un’altra lingua trasforma tanto il passato quanto il presente di una persona e questa trasformazione comporta a sua volta fare i conti con un senso di perdita continuo e l’impressione di indossare sempre una maschera. Kallifatides è peraltro un attore mancato. Racconta di avere cominciato a vedersi come scrittore a diciotto anni, quando ancora viveva ad Atene. Non aveva un lavoro né sapeva ancora che strada prendere, finché un pomeriggio fu sorpreso dalla pioggia mentre vagava per la città. Cercò riparo in un cinema e, nell’attesa che il temporale cessasse, di colpo gli apparì un libro nella testa. Vide tutto – i personaggi, le descrizioni, i luoghi – e promise a sé stesso che un giorno lo avrebbe scritto. Quel libro era Contadini e signori, ma arrivò alle stampe quasi vent’anni dopo. Sul momento Kallifatides optò per la scuola d’arte drammatica e provò a fare l’attore. Quando capì che calcare le scene non gli piaceva, emigrò in Svezia, imparò la lingua, debuttò come scrittore, conobbe sua moglie, diventò padre e si trasferì con la famiglia a Gotland. Fu proprio in quest’isola del mar Baltico che, dopo molti anni, sotto un albero, si ricordò del romanzo che aveva visto mentre si riparava dalla pioggia e cominciò a scriverlo. Chissà, forse val la pena di aspettare i libri come si aspettano i barbari. Anche a lungo e lontano da casa, se serve, per scriverli con parole straniere. Del resto, cosa ne sarebbe di noi senza i libri?

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