Primo atto di un’acclamata tetralogia di romanzi di chiara ispirazione autobiografica, lo si potrebbe definire la storia di un ragazzo che cerca di essere quello che non è. Meno cripticamente, Un giovane americano racconta cosa significasse essere adolescenti e gay nell’America a cavallo tra gli anni ’40 e ’50 del secolo, quando scendere a patti con la propria identità sessuale era tutt’altro che uno scherzetto da nulla. Cresciuto in una tipica famiglia disfunzionale, oggetto di dileggio da parte di amici e soprattutto di una sorella atletica e dunque più maschia di lui, l’imberbe protagonista di questa storia scopre presto che rifugiarsi nei libri, nell’arte, nell’immaginazione può essere una boccata d’ossigeno ma non la soluzione. La sua natura romantica lo spinge ad amare gli uomini. Vagheggia di dormire con suo padre o un compagno di liceo. Si incanta di fronte alla statua di un soldato. Ma l’America in cui vive il giovane non tollera certe fantasie. E nemmeno lui, il giovane americano, le tollera. Tant’è che da adulto, ripensando a quei giorni tormentati, dirà: ”Ora capisco che volevo essere amato dagli uomini e amarli a mia volta, non essere omosessuale”. Che è un po’ come dire: volevo essere popolare, non una checca. Così le prova tutte per guarire da quella che lui considera una malattia. Esce con la ragazza più bella della scuola. Medita di sposarsi per sentirsi finalmente accettato. Prova la virile ebbrezza di andare con una prostituta di colore. Si converte al buddismo, convinto (o forse soltanto speranzoso) che la nuova fede lo libererà dai suoi più sinceri desideri. Ma della verità non ci si libera. E questa verità, antica quanto il mondo e comunque comune a tutti gli adolescenti (perché tutti gli adolescenti apprendono la sofferenza di sentirsi diversi), White la racconta con la sublime naturalezza di uno scrittore classico, a metà strada tra Salinger e Oscar Wilde. O meglio ancora: tra un De Profundis riscritto da Salinger e un Giovane Holden alla Oscar Wilde.