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C’è un quadro esposto nella Sala di Saturno di Palazzo Vecchio a Firenze che si è guadagnato l’epiteto di «Madonna del disco volante». L’attribuzione è incerta; si parla della cerchia di Filippo Lippi, pittore fiorentino del XV secolo. Non fosse per la presenza di una curiosa scena rappresentata nello sfondo, sarebbe una natività come tante altre, una Madonna con San Giovannino. Un pastore scruta il cielo coprendosi gli occhi con la mano. Al suo fianco c’è un cane che abbaia nella stessa direzione in cui sta guardando il padrone. L’oggetto che calamita la loro attenzione è per l’appunto un disco volante. O meglio: un qualcosa che alcuni pretendono sia un disco volante. È di forma ovoidale, di color grigio piombo e volteggia tra le nuvole irradiando fasci luminosi. Non c’è che dire: in effetti, ricorda da vicino gli oggetti volanti non identificati dei nostri tempi. E non è nemmeno un caso isolato. Il Quattrocento italiano pullula di simili avvistamenti: nubi dalla forma inconsueta appaiono nell’Esaltazione della Croce di Piero della Francesca; nubi ancora più strane – scure e lenticolari – incombono nel Miracolo della Neve di Masolino da Panicale custodito al Museo di Capodimonte a Napoli. Presunte tracce di Ufo sono state ravvisate anche in una natività del Pinturicchio, in un’annunciazione di Carlo Crivelli presso la National Gallery di Londra e nella Tebaide di Paolo Uccello visibile alla Galleria dell’Accademia a Firenze. Cosa siano in realtà queste presenze non è dato sapere. Proprio come accade con i moderni dischi volanti, la loro apparizione è fuggevole e ambigua. Potrebbero essere tutto o niente. D’altronde è sempre stato così. Che siano i graffiti preistorici rinvenuti nelle grotte franco-cantarbiche, raffiguranti sagome rotonde che volano, o le luci che piroettano nello spazio aereo della famigerata Area 51, gli Ufo non si sono mai degnati di mostrarsi davvero.

«Dove stanno?» si chiedeva uno scettico Enrico Fermi a Los Alamos nel 1950. «La delusione più cocente e astratta della mia vita fu senza dubbio il mancato sbarco dei marziani nel decennio tra il 1950 e il 1960» – scriveva un sarcastico e sconsolato Giorgio Manganelli in suo articolo. A entrambi non sfuggiva che l’essenza dei dischi volanti è proprio quella di rimanere oggetti vuoti, entità autonome che scorrazzano un po’ a capriccio sopra le nostre teste. Appaiono, scompaiono, procedono a zig zag seguendo traiettorie apparentemente prive di logica, come mossi da una propulsione casuale, come se al loro interno non ci fosse nessuno a pilotarli. Sì, certo, disponiamo di testimonianze di persone che pretendono di avere avuto contatti ravvicinati con gli extraterrestri e di essere perfino saliti a bordo dei loro potenti mezzi. Ma questi racconti non emanano il fascino al limite dell’esoterico che è invece proprio del semplice avvistamento di un disco volante. Sono inoltre meno credibili, se non palesemente ridicoli come quello celebre del signor Adamski che negli Cinquanta asserì di avere fatto un giretto nel cosmo a bordo di un’astronave aliena scoprendo che l’altra faccia della Luna è ricca di acqua, vegetazione e centri abitati. Grazie alle missioni Apollo oggi abbiamo la prova incontrovertibile che nella migliore delle ipotesi Adamski deve aver sognato. Ma anche allora non ci voleva molto a capire che il suo racconto era un’assurdità.

Che esistano o no, gli Ufo sembrano una fonte di sogni fatta apposta per la nostra epoca. Nel Rinascimento ci si beava che l’uomo fosse il centro del mondo e misura di tutte le cose. Ora che perfino le persone a digiuno di astrofisica hanno un’idea piuttosto precisa di quanto risibili siano l’esistenza umana e il suo pianeta al cospetto della vastità dell’universo, l’uomo si è alquanto ridimensionato. Ora che il divino ci appare come una forma di consolazione inadeguata a fornire una risposta soddisfacente al senso della vita, la prospettiva di essere soli nell’universo – anche se creati a immagine e somiglianza di Dio – diventa più difficile da accettare. Proprio per questa ragione, malgrado sedicenti esperti si affannino a dimostrare che gli alieni ci scrutano fin dalla notte dei tempi, gli Ufo sono essenzialmente un fenomeno moderno. Tutti i libri scritti in materia, da quelli più o meno seri alle raccolte di pure e semplici panzane, concordano su un punto: la storia degli Ufo inizia un giorno preciso: il 24 giugno del 1947. Quel giorno il pilota Kenneth Arnold si trovava in volo nei pressi del monte Rainier, stato di Washington, quando scorse una formazione di nove oggetti che si spostava in cielo «come lo potrebbe fare un piattino quando lo si lancia a pelo d’acqua per farlo rimbalzare». Sul momento ritenne di aver visto un nuovo tipo di aereo, ma quegli oggetti si muovevano a una velocità inconcepibile per l’epoca. La loro forma, poi, era ancora più inconcepibile della velocità. Agli occhi del pilota questi oggetti apparvero come degli enormi saucers, vale a dire qualcosa di molto simile ai piattini su cui vengono posate le tazze o, meglio ancora, quelli che si usano per servire a tavola salse e intingoli.

La convinzione che tutto sia cominciato allora è talmente radicata che perfino Carl Gustav Jung la fa propria. Stimolato dal fatto che «gli Ufo coincidessero in maniera impressionante con il simbolo del mandala», proprio a partire dal 1947 lo psicologo cominciò a raccogliere tutto ciò che veniva pubblicato sull’argomento. Nel 1958, dopo un decennio di analisi e riflessioni diede alle stampe il saggio Un mito moderno. Le cose che si vedono in cielo dove si legge: «Resta comunque incomprensibile il motivo per cui questi esseri superiori, che mostrano un così acceso interesse per le sorti della Terra, dopo dieci anni non siano ancora giunti, nonostante le loro conoscenze linguistiche, a stabilire un contatto con noi». Come sarebbe a dire «dopo dieci anni»? Nel suo saggio Jung fa riferimento ad avvistamenti ben più antichi, tra cui un foglio redatto a Basilea nel 1566, eppure non esita a considerare il mancato contatto come la questione di un decennio. Perché? Il motivo più evidente è che prima del XX secolo queste misteriose apparizioni venivano interpretate in modo affatto diverso. Quando nel Cinquecento capitava di vedere «neri globi immani per l’aere» si pensava immediatamente ad ammonimenti divini o annunciazioni di apocalissi prossime venture. Chi mai poteva immaginare che potessero essere il prodotto tecnologico di una specie superiore proveniente da un altro pianeta magari distante anni luce dalla Terra? Osserviamo il mondo più con ciò che sappiamo che non gli occhi e a quei tempi certe cose erano del tutto inconcepibile oltre che ignote.

I dischi volanti hanno però un’altra e più curiosa particolarità. Gli uomini che riescono a vederli non sono soltanto moderni. Molto spesso sono anche Americani. Talvolta gli Ufo si fanno avvistare in luoghi remoti come il Sahara o l’Antartide, ma come Jung rileva, «nei loro voli mostrano una spiccata predilezione per gli Stati Uniti». Jung propone una spiegazione più che plausibile: l’America è «il paese delle possibilità inaudite della science-fiction». Stabilito ciò rimangono comunque molti modi di accostarsi al fenomeno. C’è quello della credulità assoluta tipica di coloro che in America vengono chiamati youfers e il cui motto è per l’appunto «I believe». C’è la possibilità di intenderlo come un mero prodotto della civiltà americana la cui peculiarità è proprio quella di accoppiare cultura popolare e paranoie epocali per generare mostri o creature comunque fantastiche. Si può infine trattare gli Ufo alla maniera di Jung ovvero come un fatto meramente psicologico, una versione aggiornata di meccanismi vecchi quanto la mente umana. Quantunque affermi di voler sospendere il giudizio, Jung lascia trapelare tutto il suo scetticismo. «È stupefacente – scrive – conoscendo la ben nota passione degli americani per la macchine fotografiche, constatare quante poche fotografie autentiche di Ufo sembrano esistere». Questo difetto di fotogenia gli sembra in aperto contrasto con la natura visionaria delle dicerie sui dischi volanti. L’unica cosa certa, a suo modo di vedere, è che si tratti di «un mito vivente», un crogiolo di «osservazioni e deduzioni sbagliate, in cui vengono proiettate premesse psichiche soggettive». In linea di principio Jung ammette che «ultimamente la fisica ha compiuto tante scoperte che confinano col prodigioso» e non trova motivo di escludere che abitanti più evoluti di altri pianeti possano avere scoperto «il mezzo di eliminare la forza di gravità e raggiungere una velocità pari, se non maggiore, a quella della luce». Ma alla resa dei conti, dopo aver analizzato le stupefacenti leggende sorte intorno alla visione di dischi volanti, lo psicologo finisce per tirare l’acqua al suo mulino, a considerare gli Ufo «per il 99 cento come un prodotto psichico e di sottoporli quindi alla consueta analisi psicologica».

Messe dunque da parte le congetture più affascinanti e spericolate, le vere domande cui dovremmo cercare di dare risposta sarebbero essenzialmente due. La prima: perché vediamo i dischi volanti? La seconda: perché li vediamo nel modo in cui li vediamo, cioè in forma di dischi? Jung ha una risposta per entrambe. Quanto alla prima, al di là della guerra fredda che dettava l’agenda non solo alla politica statunitense ma anche alle sue fantasie, egli individua una crisi di quelle che chiama risposte metafisiche. Proprio perché la mente moderna si è fatta sempre più «tecnicizzante», avvezza a «trastullarsi con la prospettiva di voli spaziali», ha cominciato a prendere in considerazione l’ipotesi di una specie più avanzata della nostra in grado di fare ciò che finora l’uomo ha imparato solo a sognare. Questa prerogativa ha permesso agli alieni di prendere il posto del mito cristiano di un mediatore divino, di un Dio che si fa uomo per la nostra salvezza. «Milioni e milioni di cosiddetti cristiani hanno perduto la fede in un mediatore reale e vivente» rendendo impopolare l’idea di un intervento metafisico. In quanto simbolo di un possibile miracolo della scienza, gli Ufo ci consentirebbero di recuperare in chiave tecnologica il nostro bisogno di risposte provenienti dall’alto. In effetti, ancora oggi, all’inizio del terzo millennio, l’icona dell’omino verde con la testa straripante di intelligenza fa parte di molto immaginario new age.

Jung ritiene che il ruolo di mediatori angelici svolto dagli Ufo fornisca una risposta anche alla seconda domanda, ovvero al perché questi nuovi «segni del cielo» abbiano perlopiù una forma rotonda. «Balza subito agli occhi l’analogia con il mandala (termine sanscrito che indica «cerchio»), il simbolo della totalità ben noto ai conoscitori della psicologia del profondo». Ciò farebbe degli Ufo «una rappresentazione involontaria, archetipica o mitologica di un contenuto inconscio, un rotundum che esprime la totalità dell’individuo». Senza dimenticare poi l’antica definizione secondo la quale «Dio è un cerchio il cui centro è ovunque ma la cui circonferenza non è in nessun luogo». Può non essere del tutto fuori luogo ricordare che mentre Jung scriveva il suo saggio, una fabbrica di giocattoli californiana, la Wham-O, acquistava il brevetto per la produzione di un oggetto di plastica di forma rotonda. L’oggetto, lanciato sul mercato nel 1955 proprio con il nome di Disco volante, era destinato a diventare famoso in tutto il mondo come Frisbee. Due anni dopo la Wham-O ebbe un’altra pensata di forma rotonda: l’hula hoop. I dirigenti dell’azienda spiegarono di aver brevettato il principio meccanico insito nella rotazione dei fianchi necessaria a mantenere sospeso il giocattolo: «Cerchi piccoli e fianchi larghi non funzionano». La vendita dell’hula hoop fu proibita in Giappone perché presupponeva movimenti del corpo lascivi mentre l’Unione Sovietica vide nella forma di quell’oggetto qualcosa di ben diverso dalla totalità mandalica, ovvero «un esempio della vuotaggine della cultura americana».

Tornando a Jung, nella parte del suo saggio dedicata ai sogni ne troviamo uno di una ragazza ventitreenne della California, stato che lo psicologo non esita a definire «il paese classico dei dischi volanti». La ragazza racconta di essersi trovata in uno spiazzo a forma circolare in compagnia di un uomo. È notte e i due osservano il cielo quando a un tratto la ragazza scorge qualcosa di rotondo e fluorescente. Il suo primo pensiero è che si tratti di un disco volante ma poi si volta e vede qualcuno con un proiettore. Da quel momento la scena si trasforma in una specie di studio cinematografico con due produttori. «Io passavo dall’uno all’altro – dice la giovane donna – e discutevo la parte che dovevo recitare nei loro film. Era una parte che stava a cuore a molte ragazze, qualcuna la conoscevo anche. Uno dei due produttori dirigeva quella faccenda del disco volante. Entrambi producevano film di fantascienza, ed era stato stabilito che io vi avessi la parte principale». Jung spiega che la sognatrice è un’attrice in cura per un’accentuata dissociazione della personalità e che nelle figure dei due produttori «si riconoscono senza difficoltà gli oggetti opposti della scelta erotica dissociata dell’attrice e il conflitto che ne sta alla base, conflitto che dovrebbe risolversi in un tertium comparationis, una mediazione dei contrari. L’Ufo compare qui nel suo ruolo di mediatore a noi già noto». Sarà anche così ma Jung non sembra tenere in gran conto il fatto che il paese dei dischi volanti abbonda di ragazze che sognano di essere contese dai produttori cinematografici. Coloro i quali affermano di essere in contatto con gli Ufo dovrebbero perciò consigliare a questi esseri tanto superiori di smetterla di volare dalle parti della California. Altrimenti rischiano che li si prenda troppo sul serio, costringendoli a mostrarsi davvero.

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