Radio che «ronzano canti di Natale», personaggi con una «barba da Babbo Natale imbiancata anzitempo», blatte di Natale che si aggirano «brulicanti nella profondità della grotta di Betlemme», feste di Natale in strani istituti dove sinistri scienziati vedono le proprie assistenti prendere loro l’uccello per cacciarselo in gola più profondamente che possono. E poi i V-2, le micidiali bombe razzo che i tedeschi lanciavano su Londra nell’ultima fase del secondo conflitto mondiale, bombe razzo che qui attraversano il cielo alla maniera di una malefica e «nuova stella, o qualcosa di altrettanto percettibile» alla stella di Natale. Questo è altro ancora lo si trova in uno dei romanzi più complessi del secolo scorso, per non dire della letteratura in assoluto: L’arcobaleno della gravità. Che il suo autore, lo statunitense Thomas Pynchon, abbia un conto aperto con il Natale sembra alquanto innegabile, visto che altre sue opere si aprono come fossero racconti di Natale. Per farsene un’idea è sufficiente leggere l’incipit di V. (1963) suo romanzo d’esordio: «1955, la vigilia di Natale. Benny Profane, jeans neri, giubotto di pelle scamosciata, scarpe da ginnastica e cappellone da cow-boy, si trovava a passare dalle parti di Norfolk, in Virginia». Ma qualcosa di simile avviene anche nel più recente Mason & Dixon (1997), perché è durante la «Temperie Natalizia del 1786» che il reverendo Cherrycoke intrattiene i nipotini raccontando le peripezie di un astronomo e un agronomo inglesi diventati famosi per una linea di confine destinata a dividere in due il nuovo — e allora molto selvaggio — mondo americano.
La storia di questa particolare ossessione per il Natale parte da lontano, da una delle tanti voci che circolano in merito al più schivo e misterioso scrittore vivente. Poco o nulla si sa della vita di Thomas Pynchon, e in questo poco o nulla rientra la certezza che egli si è laureato alla Cornell University di New York negli anni in cui vi insegnava Vladimir Nabokov, l’esule russo creatore di Lolita. Pynchon non risulta registrato tra i suoi allievi e non c’è alcun modo per poter affermare con certezza che egli abbia davvero assistito a qualcuna delle lezioni tenute da Nabokov. L’unico indizio certo — se certo si può definire — è il fatto che alcune delle tecniche narrative usate da Pynchon sembrano dovere qualcosa alle lezioni di questo insegnante d’eccezione; si tratta di tecniche che privilegiano i giochi di parole, le allusioni, l’elusività, un gusto spiccato per la parodia e il grottesco nonché una passione speciale per la ricostruzione storica. Proprio in merito a quest’ultimo punto, Nabokov amava ricordare come James Joyce scrisse il suo Ulisse tenendo sul proprio tavolo due testi fondamentali: una guida di Dublino e una copia del quotidiano Evening Telegraph di giovedì 16 giugno 1904. Secondo Nabokov tutto quello che c’è da sapere in fatto di spazio e tempo sul romanzo di Joyce lo si trova in questi due testi, il resto è letteratura. La stessa cosa la si potrebbe essere dire anche di L’arcobaleno della gravità di Pynchon. Per orientarsi nel labirinto monumentale di questo romanzo che si aggira intorno alle quattrocentomila parole e i quattrocento personaggi è infatti consigliabile procurarsi una mappa di Londra antecedente alla seconda guerra mondiale e le copie del Times dei giorni compresi tra il 18 e il 26 dicembre 1944.
Nonostante l’apparente caos che molti hanno interpretato quale prova dello stato di alterazione in cui l’autore scrisse l’opera, le varie trame e sottotrame della prima parte del libro sono meticolosamente intrecciate a un tessuto storico ricostruito fin nei dettagli più minimi. I film in programma nelle sale cinematografiche, le condizioni atmosferiche, le fasi lunari, le trasmissioni radiofoniche e molte altre cose consentono di verificare, pagina dopo pagina, non soltanto in quale giorno e luogo di Londra si svolge una determinata scena ma anche in quale ora. Nemmeno Joyce si era spinto tanto lontano. Vi sono però almeno due differenze che mostrano quale abisso epocale separi l’età dell’oro avanguardista dalla condizione postmoderna. Joyce ricostruiva un mondo che ben conosceva. Il 16 giugno 1904, a Dublino lui c’era. Eccome se c’era — fu lì e allora che si avviò al suo primo appuntamento con l’amata Nora Bernacle — e se ricorse a una mappa e un quotidiano, fu perché in quello stesso anno dovette lasciare l’Irlanda per non tornarvi mai più. Pynchon racconta invece di un mondo a lui estraneo. Stiamo parliamo infatti di un americano nato nel 1937; tra lui e la Londra del 1944 c’erano un oceano di mezzo, senza contare poi che all’epoca in cui è ambientato il suo romanzo, egli era un bambino di sette anni. Ciò potrebbe forse spiegare gli esagerati sforzi di documentazione, ma come si è detto c’è una seconda differenza. Joyce ci descrive un giorno come tanti altri. Un giorno pieno di cose estremamente verosimili. Perfino troppo, nella loro prosaicità. Stephen Dedalus, Leopold Bloom e sua moglie Molly sono personaggi inventati, ma non fanno cose fuori dell’ordinario; non si trovano presi nei gangli eccezionali di una Storia più grande di loro. Pynchon si serve invece di coordinate precise e reali per raccontarci vicende che trascendono la norma e alle quale è difficile credere. Questa seconda differenza più che spiegare la maniacale ossessione dell’autore per i dettagli solleva un quesito. Perché mai un’opera scritta all’insegna di un surrealismo sfrenato e allucinato dovrebbe essere supportata da una ricostruzione tanto precisa della realtà?
Per quanto incongruo possa apparire, il quesito può essere inteso come un modo di ritornare alla domanda iniziale: Perché il Natale? I conti aperti che Pynchon ha con la Storia e il Natale rientrano infatti in una stessa partita, una partita in cui è di importanza nient’affatto secondaria il fatto che la famiglia dello scrittore appartenga all’aristocrazia americana dei Padri Pellegrini. I Pynchon — così si racconta — furono tra coloro che arrivarono nel Nuovo Mondo a bordo del Mayflower. Se ciò risponda al vero non è dato sapere, ma la Storia ci parla di un antenato, tale William Pynchon, tesoriere della colonia di Massachusetts Bay e fondatore di Roxbury e Springfield. Questo stesso William fu inoltre autore di un trattato teologico, The Meritorious Pride of Our Redemption (1650), nel quale affermava che Cristo non morì sulla croce per liberarci dalle pene dell’Inferno. Era una visione antitetica al Calvinismo imperante di allora e un rifiuto di quella concezione puritana della religione — e conseguentemente della Storia — per cui soltanto gli eletti sarebbero destinati alla salvezza. Thomas Pynchon ha ereditato questa visione di un’umanità divisa in due categorie: da una parte coloro che sono degni, dall’altra parte le pecore di seconda classe, la folla ben più estesa di esclusi e sottomessi, l’umanità anonima della cui sorte la Storia non tiene conto. Ed è proprio in questo che Pynchon individua il male della civiltà cristiana occidentale: un mondo dove il potere e il controllo del sistema si sono sostituiti tanto all’umano che al divino, la creazione di un’economia così perversa da essere in grado di «creare se stessa» e «fare a meno di Dio». Il Natale, proprio in quanto festa fondante di una cristianità che in linea teorica promette salvezza senza distinzioni, diventa così il momento in cui questa civiltà si mostra in tutta la sua iniquità, il momento in cui gli esclusi avvertono in modo più netto la loro condizione: «Le persone che avrebbero dovuto essere a dormire in quelle case vuote (…) adesso staranno forse sognando città splendenti di luci, la sera, un Natale vissuto di nuovo come bambini e non come tante pecore vulnerabili». Se Pynchon è interessato a una ricostruzione ordinata dei fatti così come la Storia e i suoi documenti li ricordano è solo per opporgli la versione umana delle vittime dimenticate; una versione che è surreale, allucinata e disordinata perché si cala nel buco nero di vite condannate all’oblio e che è possibile raccontare solo attraverso l’immaginazione. In modo analogo in cui, all’inizio del XIX secolo i luddisti tentarono di ribellarsi all’oppressione industriale distruggendo le macchine tessili, Pynchon si oppone al sistema razionale del capitalismo con una finzione narrativa che si beffe della Storia e del suo ordine disumano che porta inevitabilmente alla guerra e alla morte. La trama convenzionalmente intesa viene così elusa in quanto è proprio per mezzo di essa che il romanzo scimmiotta la Storia nella pretesa assurda di trovare un senso dominante nel flusso indistinto della vita.
Pur offrendo un centro apparente attorno al quale ruotare, L’arcobaleno della gravità si disperde in un dedalo di temi e vicende che vengono deliberatamente lasciate in sospeso. Nessuna delle tante trame del romanzo giunge a una vera soluzione: l’identità di colui che dovrebbe essere il protagonista, o quantomeno il suo surrogato, si dissolve prima delle pagine finali; i personaggi non trovano ciò che cercano, mancano di riconoscersi nei momenti topici e il loro bisogno di amore viene puntualmente mortificato. Nonostante il romanzo sia ambientato alla fine di un grande conflitto, ciò che ha la meglio su tutto è la guerra. Non c’è alcuna vera salvezza: lo spirito della guerra prosegue anche lontano dai campi di battaglia perché la sua vera natura è quel sistema per cui noi esseri umani «siamo fatti per il lavoro, il governo, l’austerità», il sistema per cui «queste cose hanno la precedenza sull’amore, sui sogni, sullo spirito, sui sensi e su tutte le altre banalità secondarie, tipiche delle ore oziose e spensierate». È una visione del mondo non certo ottimistica. Il cupo paesaggio della Londra devastata da bombe che piovono dal cielo come stelle comete sembra uno schiaffo al Natale e alla possibilità di speranza e salvezza che questa festa annuncia. Ma il punto per Pynchon non è l’ottimismo e nemmeno la speranza; e che non sia prevista alcuna salvezza, egli lo chiarisce già in apertura di romanzo: «di qua non si va da nessuna parte, non ci si libera, anzi ci si aggroviglia sempre più». Il punto è la dignità dell’umanità vittima della Storia, di tutte quelle persone che tentano, di quegli individui senza nome che, seppur destinati a soccombere, si ribellano all’ordine della morte ritagliandosi tane di amore e libertà. L’arcobaleno della gravità è disseminato di piccole storie, momenti toccanti che illuminano d’improvviso le pagine del romanzo. Sono effimere stelle cadenti che vengono invariabilmente dal flusso spietato di eventi che si accavallano e si annullano uno con l’altro. Al lettore danno la sensazione di incontri fortuiti; sono attimi di tenerezza che spesso durano lo spazio di poche pagine, a volte perfino di righe, ma proprio per questo appaiono più strazianti e fanno di Pynchon uno scrittore profondamente umano, tutto teso a rispondere all’entropia del mondo con l’empatia.
Uno di questi momenti è la storia d’amore tra Roger Mexico e Jessica Swanlake nei giorni dell’avvento del 1944. Il loro incontro viene descritto come un «cute meet» in stile hollywoodiano: Roger è alla guida di una Jaguar d’epoca avuta in prestito, Jessica è sul ciglio della strada alle prese con la sua bicicletta, una bomba razzo tedesca esplode in lontananza proprio mentre i due cominciano a flirtare. Il boato convince la ragazza a salire in macchina e arrendersi al suo corteggiatore. «Adesso sono in tuo potere» gli dice. Ma non è così che stanno le stanno cose, perché nella vita di Jessica c’è un altro, uno di quegli uomini che contano, uno di quelli in combutta con il potere. Quando la guerra sarà finita Jessica sceglierà lui, «prenderà gli ordini dal marito, diventerà una burocrate domestica, una socia giovane della loro società, e quando penserà a Roger, sempre che pensi ancora a lui, le sembrerà un errore, un errore che grazie al cielo non ha commesso». In quel Natale di guerra, Roger e Jessica hanno però trovato una casa in una zona evacuata a sud di Londra. È un alloggio che i due innamorati hanno occupato illegalmente; è la loro tana d’amore nell’inferno della guerra e «tutte le volte che si incontrano lì, uno dei due si ricorda sempre di portare qualche fiore fresco». Roger sa bene che presto sarà dimenticato, che non ci sarà posto per lui nella pace futura, quando verranno restaurati «i riti razionalizzati del potere». La stessa cosa la sa Jessica, perché anche se fuori è notte e soffia il vento e lei muore dal freddo, quando talvolta lui le prende le mani per scaldarla, Jessica «continua a starsene lontana, tremante». Questo succede perché «quando non sono a letto, quando parlano, quando camminano, l’amarezza, la cupezza di Roger scorrono più profonde, più intense della Guerra e dell’inverno.» La colpa di Roger è quella odiare l’Inghilterra e il «Sistema», di lamentarsi in continuazione e di ripetere che a guerra finita emigrerà. Jessica appartiene a un mondo che aspira alla normalità e Roger è un tipo troppo lunatico e ansioso per diventare uno di quei mariti che si accontentano di «una domenica sonnolenta da passare tra le foglie morte del giardinetto inaridito». Nonostante ciò e malgrado la loro storia abbia i giorni contati e i loro incontri siano destinati a cessare il giorno stesso della vittoria alleata, perfino Jessica non riesce a rinunciare a quei momenti di amore, e nella follia delle loro notti clandestine «tutto quello che le riesce di fare è ripetere Roger, Roger, amore mio, con un esile filo di voce». Forse è perché si avvicina il Natale e anche se la guerra continua, «credere non costa nulla». Lui può diventare il Bambino appena nato e «nella notte magica della sua nascita gli animali parleranno e il cielo sarà di latte». O, più semplicemente, forse è solo perché «l’amore è una cosa sorprendente» e a volte bastano poche ore e ancor meno parole affinché il tempo si fermi e due persone si stringano nei loro corpi «quanto lo consentano i muscoli e le ossa». Così, per quanto sia chiaro fin dall’inizio che la magia di questo amore non può che spezzarsi, i momenti rubati alla guerra e all’inverno rimangono comunque una sfida a sistema cinico e razionale che persegue la morte in nome di un ordine astratto. E se è vero che la tana del provvisorio amore tra Roger e Jessica ci viene descritta come «un posto marginale, misero, gelido», c’è un’altra cosa altrettanto vera. Una cosa che Pynchon spiega senza troppi giri di parole: «Sono innamorati. Vaffanculo alla guerra.»