Sandy Blair, ex hippie nonché scrittore sull’orlo di un fallimento, si improvvisa investigatore e percorre l’America a bordo di una Mazda chiamata Sogno. Incontra amici e amori di gioventù, tocca con mano quel il tempo può fare alle persone, ai loro ideali, alle cose in cui credono o pensavano di credere. Ma soprattutto incontra i componenti superstiti dei Nazgûl, una nota band degli anni 60 la cui reunion sembra all’origine del brutale assassinio di un promoter. A poco a poco, però, l’indagine on the road assume gli allucinati contorni di un bad trip e quel che sembrava una detective story ambientata nel mondo del rock si profila come una favola d’inferno governata da forze oscure e soprannaturali. Per Stephen King, Armagenddon Rag è il migliore romanzo sulla musica degli anni 60. È anche uno straordinario horror in salsa amarcord o meglio un amar-rock che sa tanto di horror.
C’erano una volta gli anni 60. «C’erano» perché non ci sono più. Perché non potrebbe essere altrimenti. Perché nulla dura in eterno. I tempi cambiano, recita una canzone di allora, e difatti cambiarono. I favolosi anni 60 divennero prima i tormentosi anni 70 e poi i materialisti anni 80. I figli dei fiori, che quegli anni li vissero, cambiarono a loro volta. Seppure con riluttanza, divennero padri e madri, misurandosi così con un’altra verità della canzone, ovvero che alla prole non si comanda. I figli degli hippie divennero yuppie e con ciò la mutazione fu completa. In verità, alcuni hippie divennero yuppie ben prima che i loro figli crescessero, ma ciò non cambia le cose. È soltanto la semplice conseguenza di una triste legge di natura. È la conferma che i vecchi hanno più faccia tosta e sanno rinnegare i loro ideali con più noncuranza dei giovani. Comunque sia, completata la mutazione, dei favolosi anni 60 non restò che il ricordo. O forse nemmeno quello, perché il passato è materia strana, sfuggente, ingannevole e può capitare che il ricordo divenga qualcosa d’altro, di estraneo. Può capitare che non sia più la memoria di eventi reali, la nostalgia di un vissuto, bensì una specie di esalazione, il fumo sulfureo di un incubo. Diciamo allora che, completata la mutazione, dei favolosi anni 60 non restò che la favola. Una favola nera, per di più. Una favola al contrario, senza lieto fine, dove si vive felici e contenti soltanto all’inizio.
È la crudele favola raccontata da George R.R. Martin in Armageddon Rag. E se questo nome vi porta alla mente mondi del tutto diversi non è per abbaglio. Martin si è ormai conquistato una solidissima reputazione di autore fantasy. Game of Thrones, l’ammirata serie prodotta dalla HBO, è un adattamento di una sua saga, Cronache del ghiaccio e del fuoco, il cui primo volume risale al 1991 mentre quelli conclusivi sono ancora di là da venire. Armageddon Rag rappresenta dunque un’eccezione nel percorso di Martin. Per qualche tempo, minacciò d’essere anche un capolinea. Giunse in libreria nel 1983 e gli esiti furono così deludenti che lo scrittore valutò l’opzione di cambiare mestiere. «Avevo scritto Fevre Dream, un romanzo storico di genere horror che andò molto bene», ricorderà poi Martin in un’intervista. «Quindi scrissi Armageddon Rag, che era un vero ibrido. Rock anni 60, horror, dark fantasy, un pizzico di poliziesco e un protagonista da romanzo mainstream: il tutto fuso in un unico contenitore. Credo sia la mia opera più ambiziosa, la più sperimentale. Disgraziatamente, dal punto di vista commerciale, fu un disastro assoluto e, anziché segnare un passo avanti, per poco non distrusse la mia carriera». Qualcosa di analogo accade al protagonista del romanzo. Sandy Blair è il classico tipo dello scrittore in crisi. Le vendite dei suoi libri procedono risolute lungo una china discendente, mentre una nuova fatica è ferma da tempo immemore a pagina 37 nella vana speranza che un elfo finisca l’opera. Chiude il deprimente quadretto una relazione senza entusiasmo né sbocchi con Sharon, un’agente immobiliare con la quale, a parte l’appartamento di Brooklyn in cui vivono, Sandy non ha più nulla da spartire. Così, quando il passato bussa alla porta, il dado è praticamente già tratto.
A voler essere precisi, anziché bussare, il passato fa uno squillo, giacché è con una telefonata che si manifesta. A chiamare è il direttore di una rivista musicale per la quale Sandy scriveva in gioventù, nei beati giorni della controcultura. Chiama per proporgli di lavorare a un pezzo sulla morte violenta del promoter Jamie Lynch. Le modalità dell’omicidio sono da rito satanico. Ma fosse soltanto questo. Figura a tinte fosche, come si conviene a un impresario del rock, Lynch è un pezzo di Storia che se ne va. Organizzò concerti memorabili, fu il deus ex machina di tanti eventi, il pigmalione sfruttatore di mitiche band. E proprio a una di queste band sembra legato l’omicidio. Indagare sul fattaccio significa dunque rispolverare i bei tempi andati, tempi finiti tragicamente nel corso di un grande concerto a West Mesa, davanti a sessantamila persone, quando il frontman della band in questione, i Nazgûl, fu ucciso da un colpo di fucile. Agli amanti di Tolkien non sfuggirà che il nome è quello dei Cavalieri Neri, gli spettri malvagi sottomessi a Sauron, il Signore degli Anelli. Non è una coincidenza. Martin si è inventato una band con una precisa mitologia, una discografia ispirata all’universo di Tolkien e dettagliatamente descritta, perfettamente inserita nel contesto dell’epoca; così perfettamente inserita che, giunti a metà del romanzo, viene quasi la tentazione di mettere mano alla tastiera per verificare su Google se i Nazgûl non siano esistiti davvero e se gli anni 60 non siano annegati a West Mesa, nel bagno di sangue di quel concerto. Non che la Storia sia poi tanto lontana dalla finzione. Charles Manson, il cui spirito infesta le pagine di Armageddon Rag, ne sa qualcosa. E che dire di Altamont, degli Hells Angels e di Meredith Hunter, ucciso mentre sul paco si esibivano i Rolling Stones? Alla vera Storia, pure presente nel romanzo, si aggiunge il tassello ulteriore di West Mesa, la ciliegina sulla torta o meglio il colpo di grazia immaginario. E il tassello si incastra a meraviglia nel puzzle, tant’è che quando la trama della realtà comincia a smagliarsi come nei migliori libri di Stephen King e la metà oscura prende il sopravvento, non c’è più ragione di verificare su Google. Perché in un certo senso i Nazgûl sono esisti davvero, così com’è esistita la loro musica primordiale. Perché gli anni 60, più che favolosi, sono stati una favola e ogni favola che si rispetti vuole il suo orco cattivo.