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Ad Reinhardt "Black Painting" (1961) olio su tela cm 152 x 152

Ad Reinhardt “Black Painting” (1961) olio su tela cm 152 x 152

Quand’è che si comincia a morire? Si comincia quando la morte non è più soltanto una certezza indeterminata. Tutti noi sappiamo di dover morire, giacché la vita è un contratto a termine; ma il puro sapere non basta. Si comincia a morire quando nel nostro contratto a termine notiamo qualcosa che o ci era sfuggito o era scritto con inchiostro simpatico: la data di scadenza. Quella data è il lasciapassare per l’inizio della fine; spalanca le porte della sala d’attesa che prelude al trapasso. Varcarne la soglia non è mai facile; non può esserlo. Sebbene tutti sappiano di non essere eterni, e sebbene molti abbiano persino visto la morte in faccia, nell’agonia di una persona cara o in un pericolo miracolosamente scampato, quando la Signora Oscura bussa alla porta è comunque uno schiaffo; qualcosa che si intromette nella routine quotidiana con violenza, ma anche con una strana dose di irrealtà. Una irrealtà che appare ingiusta, simile a un torto inaudito. Quando gli comunicarono che aveva l’AIDS, Harold Brodkey rispose che non ci credeva. Credici, gli dissero. Soltanto questo: credici. Era la primavera del 1993, lo scrittore aveva 63 anni e riteneva di essersi lasciato alle spalle il rischio. Le sue ultime scorribande in campo sessuale risalivano agli anni ’70. Faceva perciò affidamento sul tempo trascorso, sui decenni di vita castigata. Purtroppo la manica del destino è piena di assi inimmaginabili: «Credevo che cinque anni senza segni di contagio bastassero per stabilire che non si era contratta la malattia. Quando l’AIDS fu identificato per la prima volta, l’indice di sicurezza era di cinque anni. Ma adesso è diverso. Adesso una distanza di tempo di vent’anni potrebbe considerarsi sicura, ma alcuni casi di AIDS sono anomali». Il suo era appunto uno di questi.

Fu così che ebbe inizio quel che Brodkey chiamò buio feroce o tenebra selvaggia, a seconda di come si preferisca rendere l’originale wild darkness. In fondo, anche una dantesca «selva oscura» sarebbe un’immagine adeguata per lo smarrimento definitivo che coglie una persona di fronte alla morte. Brodkey si spense nell’autunno del 1995, dunque un paio di anni dopo. Lasciò testimonianza della condizione di malato terminale in una serie di scritti raccolti in Questo buio feroce, dato alle stampe postumo. Alcuni di essi comparvero però sul New Yorker, quando l’autore era ancora in vita, e contro il parere del suo medico, convinto che chi tiene segreta la propria malattia campi più a lungo. Brodkey non vedeva però alcuna utilità nella riservatezza, e soprattutto riteneva che mantenere il silenzio sul male che lo aveva colpito equivalesse a un’umiliazione per lui inaccettabile: l’umiliazione della menzogna. Del resto, era pur sempre il Proust d’America (fu Harold Bloom a definirlo così). In quanto tale, non poteva sottrarsi dal fare i conti col poco tempo che gli era rimasto. Le pagine in cui lo scrittore si sofferma sul progredire della malattia, sul suo atteggiamento nei riguardi della morte, si alternano a pagine in cui fatalmente ripercorre la vita vissuta, l’infanzia nel Midwest, il rapporto col padre adottivo, le esperienze omosessuali, le storie di amici e parenti passati attraverso un calvario simile al suo. Il bilancio è amaro, stringato, quasi cesellato, e comunque segnato sia dal rimpianto di avere sprecato la propria esistenza, sia da un inconsolabile senso di vuoto: «La morte è proprio una barba… Devo dire che mi aspettavo che la morte brillasse di significato, ma non è così».

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