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Tempo fa un uomo armato, in tutta evidenza uno squilibrato, fece irruzione in una scuola amish della Pennsylvania. Lasciò andare i maschi e trattene in ostaggio dieci ragazzine uccidendone la metà. Stando alle ricostruzioni, si trattò di una vera e propria esecuzione. Le vittime furono costrette a disporsi in fila, il viso rivolto alla lavagna, in attesa che l’uomo le eliminasse con un colpo alla nuca. Simili efferatezze fanno riemergere dalla cenere un tizzone da sempre ardente: «l’oscura persistenza della misoginia in America», per usare la definizione di un editorialista del New York Times. Alla spinosa questione ha dedicato un corposo volume Susan Faludi, Il sesso del terrore: il nuovo maschilismo americano. Semplificando parecchio, la tesi è che gli Stati Uniti hanno reagito al trauma dell’11 settembre recuperando un’ancestrale dicotomia: da un parte i maschi, nati per diventare eroi, dall’altra le femmine, relegate al ruolo di vittime. Questo gioco delle parti, per cui l’uomo ideale è rude e votato all’azione mentre la donna viene preferita innocente, inerme e possibilmente vergine, rappresenterebbe un motivo trainante della cultura americana le cui origini affondano nei lontani giorni della frontiera.

Susan Faludi

Nel suo volume Susan Faludi dedica ampio spazio alla storia di Jessica Lynch, la soldatessa ferita e catturata durante la guerra d’Iraq e presentata dai media come fragile fanciulla predestinata agli abusi sessuali. La Lynch, però, non ricordava affatto di avere subito violenze durante la prigionia e pertanto si oppose a qualunque riferimento a presunti stupri nella biografia che il giornalista Rick Bragg stava scrivendo. Il suo volere fu ignorato perché «la gente deve sapere che è quanto può capitare alle donne soldato». Com’è facile immaginare, il modo in cui Susan Paludi ha analizzato questa e altre recenti vicende non ha ricevuto un’accoglienza benevola. L’ineffabile Michiko Kakutani, per esempio, ha ritenuto di liquidare il libro come un tendenzioso condensato di sciocchezze che può soltanto sortire l’effetto di gettare discredito sul femminismo. Ammesso che ciò sia vero, il problema esiste ed è stato sollevato anche da rappresentanti del sesso opposto. Thomas Keith, professore di filosofia presso la California State University, ha realizzato un documentario dal titolo Generation M: misogny in media and culture nel quale si dimostra come gli atteggiamenti odiosi nei riguardi delle donne costituiscano un aspetto sempre più rilevante della cultura popolare americana.

Ma c’è davvero qualcosa di specificamente americano in certe forme di discriminazione? E fino a che punto il fenomeno può essere spiegato come l’inevitabile esito di una società governata dalla mercificazione? In altre parole: fin dove affondano le radici di quello che per Susan Faludi è un «sogno del terrore»? Oltreoceano la misoginia vanta in effetti illustri antenati. Uno dei capolavori assoluti della letteratura americana, Moby Dick, può essere considerato quasi una sorta di manifesto in questo senso. Qualunque presenza femminile è bandita dal romanzo, a meno di non voler dare un sesso al mostruoso protagonista che incombe minaccioso fin dalla prima pagina. In molti hanno ipotizzato che la balena incarni «la grossolanità femminile della materia, un tessuto viscido e appiccicoso» espressione di una natura vorace e tendente al caos. Del resto, il rapporto conflittuale che Melville intratteneva con le donne è un fatto accertato: un ministro di chiesa giunse persino al punto di proporre alla moglie di inscenare un rapimento per sottrarsi ai maltrattamenti cui era soggetta in casa. E anche volendo vedere in Melville un estremo, la letteratura americana classica nel suo complesso appare pervasa da quello che Leslie Fiedler definì a suo tempo il «sacro vincolo matrimoniale tra i maschi». Camille Paglia ha spiegato la messa al bando del principio materno come una conseguenza del ritorno al cristianesimo delle origini che ha ispirato il protestantesimo e il relativo rifiuto del culto della Madonna in quanto pagano retaggio medievale. A ciò andrebbe poi aggiunto che una società invaghita del futuro e in incessante movimento, quale era quella dei pionieri, non poteva non vedere nel simbolo della madre un ingombro, un insidioso invito alla sedentarietà antitetica alla «rettitudine» dell’agire.

Ernest Hemingway

Esempi di scrittori misogini non mancano nemmeno nel xx secolo. Hemingway a parte, è interessante l’opinione espressa su Willam Faulkner dal suo editor Albert Erskine, il quale, pur premettendo che non bisogna necessariamente considerare i personaggi di un romanzo come il riflesso dell’autore, trovava che «l’esplicito e imperante biasimo della donna nell’opera di Faulkner solleva inevitabilmente una questione problematica: se Faulkner non odiava le donne, perché mai tanti suoi personaggi maschili nutrono sentimenti del genere?» Il dubbio sollevato da Erskine fa il paio con l’opinione di Fiedler: «in nessuno altro scrittore al mondo gli stereotipi spregiativi nei confronti delle donne appaiono con maggiore frequenza e un eguale intensità». Anche altri critici hanno notato come l’opera di Faulkner abbondi di uomini affetti da un sessismo cronico, vedi il Joe Christmas di Luce d’Agosto, incapace di relazionarsi con le donne se non in termini di violenza, e di personaggi femminili tendenti al mascolino. Tutto ciò è di certo coerente con il profondo pathos della mitica contea di Yoknapatawha, ma è riscontrabile pure in quei rari casi in cui lo scrittore si allontana dai suoi scenari d’elezione. Fra le prove più strane dell’autore spicca Pilone, romanzo del 1935 ambientato nel temerario mondo delle gare di volo acrobatico. La voce narrante, intrisa di simbolismo modernista, è per molti versi ambigua, indecisa tra la simpatia e l’avversione per i piloti che rischiano la pelle a bordo di velivoli ancora «infidi e fragili» e vivono all’insegna del disinteresse per qualunque regola, dalla forza di gravità alle convenzioni sociali. La sacerdotessa di questo circo meccanizzato in cui il Dio supremo è la velocità e l’amore cede il passo al sesso si chiama Laverne, una bionda platino dalla bellezza un po’ sfiorita ma comunque seducente che si esibisce volando insieme a due uomini coi quali conduce un ménage a trois. Memorabile è la scena in cui, fredda e sensuale, si lascia catapultare senza niente sotto la gonna da un trabiccolo dell’aria, offrendo un’inaspettata visione paradisiaca agli spettatori che la osservano scendere a terra col paracadute. Madre di un figlio la cui paternità incerta è stata decisa ai dadi, Laverne è una donna con le ali ma la sue attitudini di mascolina sgualdrina ne fanno l’antitesi dell’angelo del focolare. Ed è proprio dal ripudio quasi panico per la vita domestica che sembra scaturire la misoginia di tanta letteratura americana.

A noi più contemporaneo è il caso di Cormac McCarthy, per lungo tempo seguito dallo stesso editor di Faulkner. La critica ha cercato di spiegare la nutrita accolita di personaggi sessisti e omofobi che popola i suoi libri come un’allegoria della frontiera ovvero di una terra ancora ai margini della propria preistoria, un luogo in cerca di un’identità dove i confini sono oscuri e sfumati, inclusi quelli che separano l’umano dall’animale e il maschile dal femminile. Un simile ragionamento calza a pennello qualora si prenda in esame la parte più nota dell’opera di McCarthy — i romanzi western, per intenderci: Meridiano di sangue e la cosiddetta trilogia della frontiera. Risulta però difficoltoso applicarlo per un libro come Suttree, che pure è il suo più denso e ambizioso nonché il suo capolavoro misconosciuto. Pubblicato nel 1979 al termine di una gestazione protrattasi per oltre un ventennio presenta vari motivi autobiografici, avendo quale scenario i luoghi in cui McCarthy trascorse la propria giovinezza. Protagonista è un certo Cornelius Suttree, un trentenne che alla stregua di un moderno San Francesco rinuncia a un’agiata esistenza per trasferirsi in una fatiscente casa galleggiante sul fiume Tennesee, a Knoxville, dove campa di pesca ed espedienti, mischiandosi a un’umanità emarginata e derelitta. Il motivo di questa scelta non verrà chiarito in maniera esplicita, ma riguarda ovviamente la ricerca di una qualche forma di verità. Cornelius deve diventare Cornelius, vale a dire se stesso, e per riuscire nell’impresa imita il capitano Acab: abbandona moglie e figlio in cambio di una vita sull’acqua, gravida di insidie che, seppure meno grandiose di quelle cui andavano incontro le baleniere di un tempo, possono comportare comunque qualche rischio.

Pesanti sbronze in compagnia di sbandati di ogni risma, risse, guai con la polizia e, per finire, una febbre tifoidea. Sono disavventure desolate ma non prive di una loro comicità, quelle di Suttree. Una prosa sublime e magniloquente, tanto melvilliana che faulkneriana, le rende inoltre epiche. Non mancano inoltre i momenti in cui il nostro cercatore di verità discute con barboni e straccivendoli circa il senso della vita e, soprattutto, della morte, che è poi il vero motivo ricorrente di McCarthy, giacché solo il continuo confronto con la dipartita da questo mondo porta a una forma di pienezza che rende la vita degna di essere vissuta. Una filosofia che si concilia assai poco con il bisogno di tranquillità e certezze confacenti a un’esistenza domestica. La casa galleggiante attesta infatti la volontà di non metter radici: è un’abitazione senza fondamenta, precariamente ancorata a un terreno in movimento. La ruvida routine di Suttree rischia però incrinarsi in un paio di circostanze, due interludi amorosi, il primo con una ragazza bambinesca, l’altro con una prostituta. Non a caso entrambe verranno bruscamente interrotte appena il legame giunge al punto di stringersi. L’avversione verso le donne, che emerge a più riprese nel romanzo, trova un significativo climax in una delle scene conclusive. Febbricitante, in preda alle allucinazioni, Suttree viene assalito dalla visione di sé «espulso da un’enorme fica marrone rossiccio con labbra prensili che pompavano morbide come un levantino bivalve». Secondo un’antica leggenda degli indiani del Nord America, un pesce carnivoro giace nascosto tra le gambe della Madre Terribile, la quale può essere trasformata in donna solo dall’eroe maschio capace di svellere quei denti dalla vagina. Un mito che è forse all’origine delle tante creature degli abissi apparsi in seguito nella fantasia degli scrittori. Balene, mostri da abbattere e domare per farne un docile oggetto di desiderio: che sia dunque questa la chiave?