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Il caso di Colin Wilson è pressoché unico. Autore di oltre centocinquanta romanzi con cui ha coperto ogni genere letterario, dal poliziesco alla fantascienza, esordì appena ventiquattrenne nel 1956 con un saggio che gli procurò una fama immediata quanto precaria. Ancora oggi lo si ricorda quasi esclusivamente per quel libro, L’outsider, dove era analizzata una figura molto discussa in quegli anni di angosce esistenzialiste: l’uomo che vive ai margini della società e sul limitare della follia. Vi si parlava di personaggi letterari famosi come Raskòl’nikov o Malte Laurids Brigge, i personaggi a cui Wilson sentiva di somigliare. In quel periodo, infatti, il giovane aspirante scrittore conduceva una vita da vero reietto, in linea con gli eroi dei libri che conosceva praticamente a memoria. Trasferitosi da un anno a Londra, aveva trascorso l’estate scrivendo nella sala di lettura del British Museum e dormendo all’aria aperta in un sacco a pelo impermeabile. Giunti i primi freddi, si era trovato una stanza e fu lì, nella solitudine di un gelido Natale e dopo avere cenato con bacon fritto e pomodori in scatola, che maturò l’idea del libro: «Qualcosa dentro di me mi aveva spinto a cercare l’isolamento. Improvvisamente, capii di avere per le mani il soggetto per un libro… Quella sera mi addormentai con un senso di profonda soddisfazione; mi sembrava di avere passato il Natale più bello di tutta la mia vita».

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L’uscita dell’Outsider lasciò il mondo letterario stupefatto. Un ragazzo spuntato dal nulla, di modeste origini e senza un’istruzione universitaria, aveva scritto il saggio del momento, una sorta di bibbia dell’alienazione a uso e consumo di quelli che la stampa di allora chiamava «i giovani arrabbiati». Di lì a poco Wilson finì anche sui tabloid. Il padre della sua fidanzata si era presentato da lui con una frusta affinché si tenesse alla larga dalla figlia. A scandalizzarlo erano state alcune pagine di un diario in cui il ragazzo parlava di Jack lo Squartatore, aggressività, pulsioni sessuali e si diceva convinto che l’uomo non fosse fatto per la civiltà né la civiltà per l’uomo. Insomma, il genere di pensieri che un genitore non vede di buon occhio, soprattutto se a farli è il ragazzo che in teoria dovrebbe sposarsi con tua figlia. Per quanto preoccupanti potessero sembrare, quei pensieri non erano però prove di una vita violenta e peccaminosa bensì gli appunti per un romanzo cui Wilson pensava da quando aveva diciassette anni, il romanzo che stava scrivendo nella sala del British Museum prima di mettere a fuoco l’idea del saggio sulla figura dell’outsider. E fu proprio in seguito all’incidente della frusta che il giovane tornò a lavorarci, fuggendo in Cornovaglia insieme alla fidanzata. Il romanzo uscì nel 1960 e sebbene il consenso non fu quello unanime ricevuto dall’Outsider, trovò comunque i suoi estimatori, incluso qualcuno che vide in Wilson «il successore naturale di Lawrence, Huxley e Orwell». Fin dall’incipit Rituali notturni, che arriva ora anche da noi in una pregevole traduzione di Nicola Manupelli, rivela la sua temperie: «Uscì dalla metropolitana di Hyde Park Corner a testa bassa, ignorando le persone che gli si accalcavano intorno e lasciando che fossero loro a spostarsi. Non gli piaceva la folla. Lo irritava. Quando gli capitava di osservarla, si ritrovava a pensare che c’erano troppe persone in quella maledetta città: ci sarebbe voluto un massacro per fare un po’ di spazio».

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L’insofferente personaggio che risale dal sottosuolo londinese è chiaramente un riflesso del giovane che trascorreva in solitudine la cena di Natale ragionando sui grandi autoesiliati dell’arte e della letteratura. Allo stesso modo, il libro nel suo complesso può essere inteso come il controcanto narrativo dell’Outsider ovvero come un romanzo di idee, un thriller metafisico. Del resto scrivere romanzi, per Colin Wilson, è sempre stato «un modo di fare filosofia» e l’oggetto speculativo di questa prima fatica è un’ipotesi estrema: l’omicidio come atto creativo, come rivolta contro l’apparente insignificanza del vivere. A portare verso simili speculazioni Gerard Sorme, il solitario londinese dell’incipit, sono le donne uccise dalle parti Whitechapel in un modo così barbaro da ricordare appunto le imprese di Jack lo Squartatore. La polizia segue ovviamente la pista del maniaco, ma Gerard sviluppa una sua teoria riguardo l’effettivo movente del serial killer, fino a sospettare di un suo nuovo amico, un gay ricco e affascinante e dai forti appetiti sessuali. Rituali notturni è però anche molto altro. È, per dirne una, un insolito romanzo di formazione. Ma soprattutto è un ritratto unico e memorabile di una Londra ormai scomparsa, quella che portava le ferite della guerra, percorsa da un malessere folle e ruvido, non ancora addolcito dall’avvento dei Beatles.

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