A pagina 145 della traduzione italiana di Falso nome condotta da Pino Cacucci e appena uscita per le Edizioni SUR, Ricardo Piglia pone l’unica questione letteraria che meriti di essere ponderata. La questione di fronte alla quale ogni altro interrogativo inerente la letteratura appare risibile, ozioso, un falso problema. Riguarda un fatto assai noto per chiunque frequenti i libri, talmente noto da essere ormai leggenda. Tutti sanno che l’accesso a romanzi come Il processo o Il castello ci sarebbe oggi precluso se Max Brod non li avesse sottratti alle fiamme. Molto si è speculato sull’effettiva natura del salvataggio. Si è detto che Kafka avrebbe dovuto provvedere da sé o almeno non affidare il compito a un amico che lo venerava, se davvero gli premeva distruggerli. Ma sono inezie. Questioni oziose appunto, falsi problemi. Quella sollevata da Piglia per interposto personaggio è di ben altro tenore: «Se fossi stato Max Brod avrei pubblicato Il castello a mio nome». A dirlo è un certo Saúl Kostia, scrittore fallito, nel corso di conversazione in un bar di Buenos Aires con lo stesso Ricardo Piglia, anche egli presente in veste di personaggio. Ma poco importa chi sia a parlare, come poco importa che si tratti di Kafka. La tentazione, se così vogliamo chiamarla, vale sempre e comunque, vale cioè ogni qualvolta ci capiti per le mani un testo o anche una semplice storia, una battuta, un pensiero qualsiasi. Immaginiamo di trovarci in un bar, intenti non a ragionare di Brod e Kafka ma a ascoltare le chiacchiere degli altri avventori. Come dovremmo comportarci se alle nostre orecchie giungesse una frase particolarmente riuscita? Potremmo appuntarla e usarla a nostro piacimento come fosse nostra o sarebbe invece doveroso chiedere a chi l’ha pronunciata il permesso di appropriarcene? Si direbbe un esempio imparagonabile alla tentazione di cui parlano Kostia e Piglia eppure, a ben guardare, si tratta della medesima questione. Chiedendo di distruggere la sua opera, Kafka rinunciava di fatto a rivendicarne la paternità, a esserne l’autore e altrettanto potrebbe in fondo dirsi della realtà: che è un’opera senza autore.

Certo, resta aperto il lato morale. Ma il discrimine è sottile e ambiguo. Perché mai appropriarsi degli scritti che Kafka voleva destinare alle fiamme dovrebbe essere più deplorevole che scrivere di vite che non sono nostra? L’allusione velata a Emmanuel Carrère e più in generale a ciò che un po’ impropriamente chiamiamo autofiction non è fuori luogo, anzi può essere aiutare a rimettere alcuni tasselli al loro posto. Falso nome risale al 1975. Uscito in Argentina nel caotico periodo culminato nel golpe militare, è il secondo libro di Ricardo Piglia. Si compone di sei racconti o, per meglio dire, di cinque racconti e della nouvelle che dà il titolo del libro. In essi si passa da un viaggio notturno in corriera a un amore in bilico tra violenza e malinconia, transitando per le antiche glorie che un pugile rispolvera grazie a un ritaglio di giornale. Storie in apparenza disparate dove però ritorna un senso di inquieta sospensione quasi sempre determinato da una distanza di qualche tipo, quella che separa la vita dalla morte o il presente dal passato o le parole dalle cose o il vero dal falso. Proprio quest’ultima dicotomia è al centro della nouvelle. Lo stesso testo è diviso in due parti. La prima si presenta come una sorta di saggio condotto con passo da romanzo poliziesco – perché un critico letterario, dice Piglia, «è sempre, in qualche modo, un investigare» – e serve a introdurre la seconda, un racconto di un noto scrittore argentino, Roberto Artl, che Piglia avrebbe scoperto o recuperato grazie anche a Saúl Kostia. Quando il libro uscì la figlia di Artl chiamò in giudizio Piglia, non rendendosi conto, come del resto molti altri lettori, che il ritrovamento era in realtà un falso o, per meglio dire, un mezzo plagio ricavato da un racconto di un altro autore, il russo Leonid Andreev. Piglia aveva una particolare predilezione per questa sua nouvelle spiccatamente borghesiana; la riteneva la cosa migliore che avesse mai scritto. Forse perché era riuscito «a percepire cosa realmente si vedesse dall’altra parte della finestra». Si riferiva alla finestra della stanza in cui scrisse Falso nome e gli altri racconti confluiti nel libro; la finestra che a suoi occhi conferiva a queste storie un’unità, «come se le storie fossero state lì, dall’altra parte del vetro». Piglia credeva raccontare vuol dire farsi carico della distanza che separa il narratore dalla storia narrata. In tempi come i nostri dove tutto è mescolato e illusoriamente a portata di mano, e l’autofiction e le scritture cosiddette ibride anestetizzano il trauma della vera finzione, libri come Falso nome ci ricordano che la letteratura deve avere la forza di essere lontana come un altrove.