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«I luoghi in cui si suona rock sono come una chiesa, un santuario eretto contro il mondo degli adulti» dice Dan Graham alla sua maniera, ovvero grattandosi il capo, parlando a scatti, veloce, mangiandosi le parole, quasi che il suo corpo fosse scosso da costanti sovraccarichi di energia. «La rockstar è la vittima sacrificale che si immola per combattere il regime del lavoro. Offrendosi in pasto al pubblico, la rockstar trascende i valori del lavoro quotidiano, ma per fare questo deve rinunciare alla possibilità di diventare adulto. Deve morire oppure cadere dalle stelle alle stalle. Morendo evita di crescere, sfugge al mondo degli adulti, alle dinamiche oppressive e ripetitive del lavoro. Il mito di James Dean è un archetipo, anticipa la nascita del rock». Nel 1982 Dan Graham ha realizzato un video di importanza fondamentale per l’arte di fine millennio. Dura poco meno di un’ora ed è un sapiente e ipnotico montaggio di materiali disparati: immagini, testi, suoni, esibizioni dal vivo dei Black Flag, brani dei Sonic Youth e di Glen Branca, la musica e la filosofia di Patti Smith, che Graham vede come «la Maria Maddalena del rock, colei che piange la scomparsa dei grandi idoli degli anni Sessanta». Il video propone una tesi non poco provocatoria sul profondo e conflittuale legame che unisce rock e religione. Punto di partenza di Rock my religion sono gli Shakers che nelle loro cerimonie erano soliti agitare mani e piedi per liberarsi dalle influenze negative del mondo. Grazie al movimento del corpo e alla lettura ritmata di passi della Bibbia raggiungevano stati di trance, sublimando così gli impulsi sessuali. Gli Shaker volevano fare dell’America un nuovo Eden e per raggiungere questo obiettivo praticavano il celibato, convinti che il sesso fosse parte integrante delle perversioni della civiltà industriale. L’idea di Graham è che il rock & roll ha ribaltato la femminea e laboriosa virginalità degli Shaker istituendo una nuova religione dove il sesso è una pratica puramente ricreativa, non più legata alla necessità di fare figli. «I cambiamenti economici degli anni Cinquanta determinarono la nascita di una nuova categoria di consumatore, l’adolescente, e una nuova ideologia, il rock’n’roll» spiega Dan Graham. «Come i robot della fantascienza, creati con funzioni chiaramente delimitate, questa nuova classe di adolescenti fu al contempo sfruttata e dotata di una falsa coscienza di libertà che condusse a una rivolta. O perlomeno a una specie di rivolta, alimentata in parte dal rock. Il lato ironico è che gli adulti dovettero dimostrarsi tolleranti con questo nuovo genere di musica, anche se nel loro intimo la disapprovavano. Dovettero farlo per il semplice fatto che i teenager e il rock davano una mano l’economia. All’industria discografica importava assai poco che il messaggio fosse anarchico o antisociale, fintanto che si poteva ricavarne denaro. In questo senso figure come Alan Freed, il dj che contribuì alla diffusione del rock, giocarono un ruolo ambiguo. Da un lato Freed può essere visto come una sorta di Mosé, un profeta martirizzato che ha guidato i giovani verso una nuova religione, dall’altro era anche un profittatore, un uomo che faceva i propri interessi manipolando i desideri di giovani innocenti». Dan Graham, però, non è più un ragazzino. È nato nel 1942 a Urbana, nell’Illinois. Nei suoi sessanta e passa anni di vita ne ha viste e ne ha fatte tante, diventando un punto di riferimento dell’arte contemporanea. «Sono rimasto coinvolto nel mondo dell’arte per caso, quando alcuni amici mi proposero di aprire una galleria a New York. Era il 1964, all’epoca la più importante galleria di avanguardia era quella di Richard Bellamy, che esponeva Donald Judd e molta altra gente più o meno legata al Minimalismo. Anche noi volevamo muoverci in quella direzione, ma gli affari andarono male e fummo costretti a chiudere al termine della prima stagione. Ciò nonostante fu un’esperienza fondamentale per me. Ebbi modo di confrontarmi con molti artisti e con il sistema. Dirigendo una galleria, ho imparato che se un’opera non viene pubblicata su una rivista difficilmente può essere riconosciuta come arte». Aveva dunque ragione Coco Chanel: la moda non esiste se non va per la strada? «L’opera è inseparabile dal luogo fisico che la ospita, galleria o museo che sia. Tuttavia ha una sua indipendenza e può sconfinare nel campo culturalmente più vasto dei media». Cosa hai fatto dopo la chiusura del tuo spazio espositivo? «È presto detto. Ho cominciato a odiarle, le gallerie. Avevo scoperto che molti artisti avrebbero voluto essere anche scrittori, occuparsi di filosofia o fare altro. Non ho mai creduto ai confini tra le arti. Sono da sempre un ammiratore di Dean Martin. Dino Martino» dice ridendo. Il tempo per una breve pausa, quindi aggiunge: «Ho esplorato territori alternativi al cosiddetto white cube della galleria. Ho guardato alla città e alla sua architettura. Volevo creare oggetti che fossero disponibili per tutti, mi aveva molto colpito un romanzo di Michel Butor, La Modificazione, in particolare per quel che diceva sullo spazio urbano. Per me e gli altri artisti Minimal, l’opera doveva avere aspetti funzionali. L’ironia implicita in gesti come quello di esporre un orinatoio in una galleria non ci riguardava; consideravamo Duchamp un gigolo. È per questo che ho iniziato a occuparmi di architettura, volevo coniugare arte e design, creare qualcosa di ibrido».

Quando è arrivato l’interesse per il rock? «Non è arrivato. È sempre stato lì. Penso che in America l’arte non sia mai stata disgiunta dalla musica, così come da altre forme d’espressione. La Pop Art degli anni Sessanta, per esempio, aveva uno stretto legame con la musica pop di quel periodo. I miei primi lavori sono nati ascoltando i Kinks e i Rolling Stones». In seguito hai cominciato a scrivere di rock. «Mi sono avvicinato alla critica musicale grazie ai testi di Lester Bangs, Greil Marcus e Patti Smith, ma si è trattato quasi di un hobby. Con il rock ho intrattenuto un rapporto a due facce. Una di queste due è quella l’appassionato consumatore, il critico è l’altra. Il rock è stato la mia passione. Del resto, erano gli anni del movimento hippy». Che mi dici di quella cultura? «Una delle mie canzoni preferite, da giovane era Angel of the Morning. Raccontava di una ragazza che crede di poter diventare un angelo. Al centro di Rock My Religion c’è per l’appunto l’idea del paradiso adolescienziale, giovani che muoiono per accedere al regno dei cieli senza passare attraverso il lungo purgatorio dell’età adulta. Gli hippy hanno convertito l’idea del paradiso adolescenziale nell’ambizioso progetto di un mondo basato sull’amore libero. Tutto finì quando Jim Morrison si denudò sul palco. Fu un gesto dall’involontario simbolismo. Mostrando il proprio pene, lui che era diventato un sex symbol, divenne l’immagine dell’hippy che distruggeva se stesso e al contempo delle contraddizioni insite nella figura del maschio carismatico di hollywoodiana memoria. Con quel gesto rivelò un lato patetico. Non uccise soltanto la rockstar, si annientò in tutti i sensi». Per associazione mi torna in mente un vecchio lavoro concettuale di Dan Graham sull’orgasmo maschile, consistente in un bizzarro annuncio comparso su paio di riviste piccanti. «Ero interessato a un testo clinico sugli aspetti emotivi e fisiologici che seguono al climax di un rapporto sessuale» racconta. «Avevo letto da qualche parte che in letteratura non esiste alcuna descrizione di questo particolare momento, probabilmente perché troppo anti-romantico, per così dire. Comunque pubblicai un annuncio: Cercasi medico professionista per redigere una descrizione degli aspetti della detumescenza sessuale nel maschio umano». Rispose qualcuno? «No». Torniamo ai Doors: Jim Morrison nutriva una forte passione per Rimbaud, come Patti Smith. Che interpretazione dài di questo amore in comune? «Morrison non è mai stato un androgino come Rimbaud. Patti Smith invece sì ed questo che fa di lei un punto di svolta nella storia del rock. Lei incarna la figura della donna libera che conquista il suo posto in un mondo dominato dal maschio. È l’antitesi della cantante alla Debbie Harry, tradizionale star femminile nata per essere guardata e desiderata». E visto che siamo in tema di donne, invito Dan a dirmi qualcosa del suo rapporto con Kim Gordon, la quale ha dichiarato una volta che se non fosse stato per lui i Sonic Youth non sarebbero mai esistiti. «Forse è una faccenda troppo personale». Non ho il tempo di temere che voglia chiudere il discorso lì, perché subito riprende a parlare. «Kim è una persona adorabile. L’ho conosciuta parecchi anni fa quando era la ragazza di un mio amico artista. La incoraggiai a scrivere, e in un secondo momento la coinvolsi nella performance di una rock band composta di sole donne, fu l’evento che diede il là alla sua prima formazione». Ci sarebbero molte altre cose di cui parlare, ma il tempo sta scadendo. Gli chiedo un’ultima battuta. Mi risponde con le parole con cui si apre il primo album di Patti Smith, la Maria Maddalena del rock: «Gesù morì per i peccati di qualcuno… ma non per i miei». C’è forse religione migliore di questa?