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I suoi ritratti compaiono regolarmente sulla rivista letteraria più stylish in circolazione, «The Believer». Anche «Time» e «The New Yorker» sollecitano spesso i suoi servigi di illustratore. Si sentiva tuttavia la sua mancanza. Si attendeva che il suo tratto inconfondibile — straniante evocazione di un tempo in cui il fumetto era ancora un’arte dei bassifondi — ci deliziasse con un nuovo graphic novel. L’ultimo risaliva ormai al 2004, quando vide le stampe la puntata conclusiva del monumentale Black Hole, la cui importanza nel mondo delle nuvole parlanti è stata paragonata a quella dell’Ulisse di Joyce nella letteratura moderna. Che bisognasse attendere era cosa scontata. Charles Burns è notoriamente lento e meticoloso nel proprio lavoro; ci sono voluti nove anni perché Black Hole giungesse a compimento. È dunque prevedibile che anche X’ed Out, di cui è appena apparso il primo capitolo per un totale di 56 tavole, ci lascerà col fiato sospeso per un bel po’. Il mondo messo in campo è ben noto ai fan di Burns: uno zoo visionario popolato di adolescenti angosciati e artistoidi che dividono l’esistenza tra le paranoie di cui sono prigionieri e l’assidua quanto sconsolata frequentazione di circuiti alternativi: feste underground, inaugurazioni di mostre, happening e concerti rock. Raccapezzarsi nel labirinto non è facile, perché la vicenda ci viene raccontata a forza di flashback da un giovanotto in bilico tra due dimensioni. In una di queste il nostro eroe si chiama Doug e lo vediamo col volto nascosto da una maschera di Tintin mentre declama al cospetto di un uditorio non particolarmente entusiasta versi ispirati ai cut-up di William Burroughs. L’altra dimensione, dichiaratamente onirica, prospetta invece uno scenario alla day after abitato da creature aliene, uomini lucertola con un occhio solo specializzati nella cottura di gigantesche uova maculate. Il tormentato Doug è di casa anche qui sebbene con fattezze diverse, somiglianti a un Tintin versione punk, come che se la maschera usata nelle performance si fosse per qualche ragione fusa col suo viso.

Il nome che il personaggio assume in questo mondo sotterraneo — Nitnit, ovvero Tintin al contrario — è un ulteriore omaggio alla creatura del fumettista franco-belga Hergé. E se nelle sue avventure Tintin era accompagnato dal cagnolino bianco di nome Milù, questo suo omologo underground non poteva non avere per fido compagno un gatto nero, Inky. Vien da sé che i due mondi sono paralleli sotto molti aspetti, a cominciare dal fatto che sia Doug sia Nitnit hanno la testa fasciata per ragioni che verranno presumibilmente svelate in una delle prossime puntate (stando a quanto annunciato dallo stesso Burns ne sono previste altre due). Altrettanto evidente parrebbe che il travaso da un dimensione all’altra avvenga per via onirica. Tanto Doug che Nitnit iniziano le rispettive peripezie a letto, pronunciando la seguente fatidica frase: “Ecco l’unica parte parte che mi ricorderò. La parte in cui mi sveglio e non so dove mi trovo”. Una sensazione simile assale il lettore dopo una ventina pagine, quando l’intreccio tra la sfera dei sogni e quella della realtà si fa così ingarbugliato da dubitare che il sogno sia soltanto un sogno e la realtà effettivamente reale. Forse una bussola nel labirinto è rappresentata dalla figura del padre, che compare, immutato, in entrambi i mondi. Ma confidare in un orientamento certo sarebbe comunque insensato. Nel mondo di Burns spesso le domande vengono sollevate per restare senza risposta giacché è governato dalle stesse impenetrabili regole vigenti nei film di David Lynch. E per dirla tutta, non si avverte affatto la mancanza di spiegazioni razionali. Ci basta abbandonarci all’atmosfera di adolescenziale straniamento ed emarginazione che pervade ogni suo graphic novel e che in questa sua ultima abbacinante fatica trova un momento significativo quando Doug legge i suoi cut-up. Cosa c’è infatti di più comicamente crudele di una performance alla William Burroughs fischiata da un pubblico di rockettari alternativi? Forse Lady Gaga che dice, come di recente ha fatto: “A volte mi sento ancora come la sfigata del liceo”. Ma questa è un’altra storia. O meglio: un altro incubo.

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2 thoughts on “X’ED OUT

  1. Grazie per la esaustiva spiegazione, sarà il mio prossimo acquisto, l’ultimo è stato Berlin di J.Lutes il cui argomento sento essere parecchio in affinità con i tempi che viviamo o che vivremo, naturalmente spero di sbagliarmi del tutto ma le intuizioni poche volte mi hanno smentito.

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