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«Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia». Pare che Nabokov abbia scritto il suo romanzo più celebre e scandaloso viaggiando per gli Stati Uniti insieme alla moglie, armato di retino. Univa in tal modo quelli che considerava i piaceri più intensi che un uomo possa avere la fortuna di provare: la scrittura e la caccia delle farfalle. Considerati i risultati raggiunti, entrambe le attività rappresentavano per lui qualcosa di assai superiore a un dilettevole passatempo. Nabokov, si sa, è stato uno dei massimi scrittori del secolo scorso, ma non ha sfigurato nemmeno nei panni del naturalista. La sua competenza è riconosciuta dagli studiosi di tutto il mondo. Si dedicò alla classificazione di un importante gruppo di lepidotteri dell’America Latina volgarmente noto come farfalle «blues»: pubblicò una decina di articoli tecnici sulla tassonomia e la storia naturale delle farfalle e lavorò per sei anni, tra il 1942 e il 1948, in qualità di ricercatore associato di lepidotterologia presso il Museo di zoologia comparata dell’Università di Harvard, per il quasi simbolico salario di mille dollari annui. Dunque, non soltanto Nabokov amava le farfalle non meno della letteratura, ma si dedicava a entrambe con l’esperta dedizione di un professionista. Qualcuno si è addirittura spinto al punto di considerare che prima del successo «convenzionalmente inteso» di Lolita, alla cui stesura cominciò a dedicarsi nel 1949 ovvero un anno dopo aver lasciato il suo posto di ricercatore associato, Nabokov avrebbe potuto essere identificato come un lepidotterologo professionista e uno scrittore dilettante, perlomeno secondo i prosaici criteri di valutazione che soppesano denaro guadagnato e tempo investito. Per quanto, i sei anni trascorsi standosene immerso nel «meraviglioso mondo cristallino del microscopio», classificando «certe farfalline azzurre in base alla struttura dei loro genitali maschili», danneggiarono per sempre la vista di Nabokov. E due occhi della testa in cambio di seimila dollari non sono esattamente un affare. Lui però non si pentì mai del sacrificio; in un’intervista rilasciata nel 1971 dichiarò che «gli anni trascorsi al museo di Harvard rimangono i più belli ed emozionanti di tutta la mia vita adulta».

Il Nabokov entomologo ha inevitabilmente interrogato la critica letteraria. Fiumi di inchiostro sono stati versati allo scopo di dimostrare che lo scrittore si serviva della conoscenza in materia di insetti quale fonte di metafore e simboli per i suoi romanzi, a cominciare da Lolita che a detta dell’autore è il «resoconto della mia relazione amorosa con la lingua inglese». Tanto l’amava, questa lingua, che le donò una parola nuova «nymphet», ovverosia ninfetta, ovverosia lolita, entrata nei dizionari – compresi quelli italiani – con una definizione che il suo inventore troverebbe probabilmente impropria: «Adolescente il cui comportamento sia tanto precoce e provocante da ispirare un’attrazione anche in uomini maturi». Nabokov teneva in gran conto il fatto di esprimersi in maniera scientificamente corretta, per cui è alquanto improbabile che potesse usare il termine ninfa per indicare lo stato di crisalide, come spesso capita di leggere nelle enciclopedie. Nondimeno un qualche nesso esiste, come esiste pure una famiglia di lepidotteri che porta il nome di Ninfalidi. Per non parlare di una farfalla scoperta dallo scrittore nel 1943 e battezzata dagli studiosi Ninfa di Nabokov sebbene non abbia alcunché a che fare con la famigerata ninfetta del romanzo. Stephen Jay Gould, noto biologo evoluzionista e storico della scienza scomparso qualche anno fa, ha provato ad affrontare la questione da un’angolazione diversa, mettendo in dubbio che il letterato sia più importante dell’entomologo. Non fa difficoltà a riconoscere che se «Nabokov è stato un general maggiore della letteratura», nel campo della storia naturale gli si può invece riconoscere soltanto «il rango di un fante in carriera, fidato e ben addestrato». Tuttavia non può evitare di domandarsi cosa abbia spinto uno dei più grandi scrittori del suo tempo a dedicare tante energie a un’attività del tutto diversa e di così limitato interesse, anche per il pubblico colto. Molti grandi della storia avevano un hobby. Einstein suonava il violino; mediocremente a quel che si dice. Goethe era un pittore della domenica per nulla dotato. Né questi né gli altri esempi analoghi che si potrebbero citare fanno il paio con la passione di Nabokov per le farfalle. Einstein e Goethe erano semplici dilettanti e si dedicavano al loro passatempo per pura distrazione, senza togliere nulla di sostanziale alla loro attività primaria. Impossibile sostenere che Einstein ci avrebbe regalato qualche scoperta scientifica in più se avesse lasciato perdere il violino o che Goethe sarebbe stato capace di scrivere qualcosa di superiore al Faust se non gli fosse saltato il ghiribizzo di mettersi a dipingere. Con Nabokov non è così. La dedizione con cui si applicò alla entomologia fu tale che è lecito ipotizzare che per colpa delle farfalle ci ritroviamo con qualche romanzo in meno. Pensare, come fanno molti critici, che i lepidotteri siano stati una fonte di ispirazione per Nabokov è in qualche modo consolatorio. È un po’ come dire che se oggi possiamo bearci delle meravigliose pagine di Lolita e Ada lo dobbiamo anche alle farfalle. Sebbene sia buona norma diffidare di quel che un artista dice di sé, questa critica di natura consolatoria non si concilia con quanto lo scrittore ha affermato in più di una circostanza: il potenziale simbolico delle farfalle esulava totalmente dalla sua sfera di interessi. Gould ritiene che, malgrado gli sforzi profusi, la maggior parte dei critici non siano riusciti a cogliere la relazione tra la sua opera letteraria e quella scientifica. La ragione del fallimento consisterebbe nel fatto che le analisi si sono concentrate su «un livello troppo specifico, ovvero sulla ricerca di come un dominio abbia esercitato un impatto sull’altro».

Qual è dunque la giusta via? Gould propone un approccio di fondo. In altri termini, avanza l’ipotesi che Nabokov «si applicava a entrambi i domini allo stesso modo» e dunque che «l’arte e la scienza di Nabokov abbiano entrambe beneficiato, in misura simile, del fatto che egli applicasse un metodo, o una modalità di funzionamento mentale, che spiega le fondamentali caratteristiche del suo genio». Gould era uno scienziato e dunque più incline di un letterato a considerare l’opera di Nabokov come un mero oggetto di studio, uno strumento per scoprire qualcosa sulla natura umana, in particolare sul modo unitario in cui lavora la nostra mente, sia che si tratti di scienza o di arte. Volendo individuare un atteggiamento unitario in Nabokov, l’elemento che salta all’evidenza è il suo amore per il dettaglio. Ovviamente, la critica non ha mancato di notare questo aspetto ma ne ha ricavato, secondo Gould, uno stereotipo, assumendo che «la dedizione di Nabokov all’accuratezza debba aver necessariamente conferito qualità opposte» e rafforzando così «la convenzionale distinzione fra arte e scienza». Gould sposa la tesi per cui «tanto nei libri, quanto nelle farfalle, Nabokov cercava l’estasi, e qualcosa che andasse oltre. La trovò nell’adorazione del dettaglio, nell’amorevole descrizione della materia vivente e della metafora organizzata». Il letterato e l’entomologo, queste personalità apparentemente lontane, giungerebbero dunque a fondersi nell’intelligenza insolita di un uomo il cui talento era mosso da un’ossessione di tipo quasi mistico per il dettaglio. E se la meticolosità è un requisito imprescindibile per il naturalista, in letteratura è tutt’altro che ineluttabile. Uno scrittore può fare della cura per i particolari un elemento costituivo della sua prosa, ma può benissimo anche fregarsene. L’unione tra scienza e letteratura che Gould riconosce nel comune valore della concretezza parrebbe pertanto accidentale. Valeva certamente per Nabokov per il quale «non esiste scienza senza fantasia, né arte senza fatti», ma sul fatto che possa valere in assoluto non v’è certezza. Gould rileva che alcune di queste sue osservazioni sono sfuggite ai critici perché, costoro, sebbene più eruditi di lui, ignoravano le regole e la cultura della tassonomia. Ma probabilmente esiste anche un’altra verità e cioè che il biologo evoluzionista condivideva con l’entomologo un profondo amore per il linguaggio accurato. Nella sua lunga carriera di pubblicista, Gould ha sviluppato una maestria invidiabile nella capacità di scegliere le parole giuste così da illustrare al meglio concetti complessi. L’attenzione alla precisione espositiva nasceva dalla consapevolezza che molte diatribe scientifiche sono frutto della «confusione generata dal diverso modo di usare le parole e non da un garbuglio concettuale inerente la natura delle cose». Non per nulla l’importanza delle parole è il cuore di un altro saggio di Gould dedicato alla sifilide e in particolare a come questa terribile malattia trovò il suo nome dopo essere passata attraverso una serie di vaghe definizioni basate essenzialmente sullo scaricabarile. «Ne sapendo a chi dar la colpa, li Spagnuoli lo chiamarono mal Francese, li Francesi mal Napoletano, e li tedeschi, Mal spagnuolo» si scriveva ai tempi. Nella sua affascinante ricostruzione della nascita del termine «sifilide» Gould ci mostra che la conquista della conoscenza non può prescindere da un controllo sempre più saldo del linguaggio. In altri termini, tanto più le parole sono precise tanto più il loro divario con le cose diminuisce, riducendo al contempo quello tra scienza e letteratura. Del resto, come e quanto i due ambiti possano compenetrarsi fino a diventare inscindibili lo ha mirabilmente sintetizzato lo stesso Nabokov ammettendo di non essere in grado di «distinguere il piacere estetico offerto dalla vista di una farfalla dal piacere scientifico di sapere cos’è quel che sto guardando».

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One thought on “LE FARFALLE DI NABOKOV

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