Dopo il monolite di 2001, ecco una seconda riflessione a margine di un memorabile oggetto di Kubrick. Questa volta si tratta dell’ascia di Shining. La riflessione parte da un quesito: dovendo andare nella giungla, preferireste avere con voi un’ascia o un amico? Molto probabilmente la paura di affrontare da soli insidie a cui non siamo più avvezzi suggerirebbe di propendere per la seconda possibilità. Ma i nostri antenati ragionavano in modo affatto diverso: non ci avrebbero pensato due volte a sacrificare un amico in cambio di un’ascia. Si dirà che ci siamo evoluti, la nostra sensibilità si è affinata inducendoci a valutare le cose diversamente. D’altro canto, è proprio grazie all’estremo senso pratico di chi ci ha preceduto se siamo cambiati quel tanto da considerare una persona più importante di un arnese qualunque. Tutto ciò potrà apparire scontato, giacché il discernimento è il tratto che più ci distingue dagli animali, incluse le scimmie che pure tanto ci somigliano e dalle quali pare discendiamo. Il guaio è che tendiamo spesso a sopravvalutarci, attribuendoci qualità che solo in parte ci appartengono. La soluzione del dubbio fra l’amico e l’ascia dovrebbe essere una scelta di buon senso e in quanto tale immutabile nel tempo, ciò nonostante si è evoluta. Come mai? Erano i nostri predecessori a peccare di brutalità o siamo noi ad eccellere in saggezza? A giudicare da certe contemporanee storture parrebbe quasi l’inverso. C’è poi un altro nostro aspetto che cozza fortemente con il buon senso di cui andiamo fieri: l’enorme diffusione di credenze più o meno improbabili. Oroscopi, superstizioni, religioni, fanatismi. «Credere con passione in ciò che chiaramente non è vero è la principale occupazione dell’umanità» diceva Henry Louis Mencken, acerbo critico della società americana. Come dargli torto? Una buona fetta d’umanità preferisce toccare ferro o informarsi sui transiti di Saturno piuttosto che affidarsi a spiegazioni razionali e scientifiche. Molte nostre irragionevoli inclinazioni sembrano quanto di più lontano si possa immaginare dalla tecnologia, eppure eccoci qua. Come conciliare questa apparente contraddizione? L’antropologo Clifford Geertz ha notato che non si è ancora prestata la dovuta attenzione a cosa in effetti sia il buon senso. Di solito, pensiamo al buon senso come qualcosa che ci consente di soppesare gli eventi in modo ragionevole ed efficace così da affrontare al meglio i problemi della vita quotidiana. Capire che il fuoco brucia o l’acqua bagna è una conquista alla portata di tutti, anche degli idioti. Il buon senso è quello scarto in più che permette all’individuo di prendere le dovute precauzioni. Cercare di porre rimedio alla siccità con la danza della pioggia non è probabilmente una soluzione dettata dal buon senso, ma era comunque quella prevalente nelle tribù primitive. È ormai un bel po’ che ci siamo lasciati l’età della pietra alle spalle, ma alle danze della pioggia non ci abbiamo ancora rinunciato del tutto. Lewis Wolpert, noto biologo, ha cercato di dare una risposta al problema in un arguto volume, Sei cose impossibili prima di colazione. Il titolo è un omaggio a Lewis Carroll. In Attraverso lo specchio, infatti, quando Alice nega di poter credere in qualcosa d’impossibile, la Regina Bianca obietta: «Mi sembra che tu non abbia molta pratica. Alla tua età mi esercitavo mezzora al giorno. Certe volte arrivavo a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione».
Wolpert sostiene che questa assurda sorta di allenamento ha una sua ragione di essere ed è anche alla base del meccanismo evolutivo che ci porta a preferire un amico a un’ascia. L’idea è che tutte le nostre credenze, dalle più sciocche alle più sofisticate quali le grandi fedi religiose, sono nate quando gli uomini cominciarono a fabbricare utensili. Ricordate la famosa scena di 2001: Odissea nello spazio, quella in cui una scimmia raccoglie un osso e si rende conto di poterlo usare come un’arma per dominare i suoi compagni? Ebbene, secondo Wolpert, a partire da quel fatidico momento la struttura del cervello avrebbe iniziato a mutare. La selezione naturale avrebbe fatto il resto premiando gli individui la cui mente era più portata a individuare relazioni di causa ed effetto. In teoria, nulla è più razionale del principio di casualità. Tuttavia un osso è un osso, vederci la possibilità di diventare un capo richiede un notevole sforzo d’immaginazione. Guardandolo per quello è, un osso può diventare un arma né più né meno come un corno possa rivelarsi un efficace strumento contro le sciagure. È dunque probabile che la selezione naturale abbia premiato quei geni che consentono al cervello di stabilire nessi di causa ed effetto tra le cose anche dove apparentemente non ve ne sono. Per molti sarà blasfemo, ma anche le religioni sono frutto di questa programmazione genetica. «Una volta sviluppate le credenze casuali in relazione agli strumenti, e una volta sviluppato il linguaggio, fu inevitabile che le persone desiderassero comprendere le cause di tutti gli eventi che influenzavano la loro vita, dalla malattia ai cambiamenti climatici, alla morte stessa. Una volta nato il concetto di causa ed effetto, l’ignoranza smise di essere una beatitudine». In altre parole, l’umanità scoprì il tormento dell’incertezza riguardo l’origine e il futuro di cose d’importanza primaria, trovandosi di fronte alla necessità di superare la paura che ne derivava. La religione si mostrò un ottimo strumento, poiché promuoveva l’ottimismo e la speranza, offriva ai credenti la sensazione che la vita abbia uno scopo e un significato. Wolpert ammette che le prove a sostegno della sua tesi sono ancora frammentarie, ma è altresì convinto che quando sapremo di più sul funzionamento del cervello «sarà tutto molto più chiaro e interessante». Non per nulla conclude le sue riflessioni con una citazione da Virgilio: «Felice è chi ha potuto conoscere la causa delle cose». Il che, in fondo, è un modo come un altro per dire: basta crederci.
Partendo dalla fine (ciò che in un certo buon senso è kubrikiano), direi che la citazione da Virgilio mi pare ad usum delphini. Conocere la causa delle cose è diverso dalla “presa diretta” sui nessi di causalità. E quel “felice” ha una intonazione assai meno ottimistica di quella che fonda la (per me) boria metafisica razionalistica. mi chiedo: chiaro e interessante sono davvero due aggettivi compatibili?
Riducendo invece la questione…all’osso, direi che è molto giusto quando alludi-se ho ben inteso- alla capacità metaforica del capo, che comprende le potenzialità inedite del suo strumento laddove gli altri primati si “arrendono” alla sua evidenza minimalista (l’osso appare monouso come il monolite è quintessenzialista, “tabula rasa”). Kubrik raccoglie questa idea lanciando in aria l’osso (qualcosa di simile al carrello in alto di Citizen Kane) e, entrando nell’anima dell’umanità, “inventando” l’astronave sulla comune base (in un’ottica spengleriana, potremmo dire riannodando le fila del discorso su barbarie e civiltà, sulle differenze tra ere diverse) della vocazione al destino rotatorio. Con un “taglio” di 4.000.000 di anni che fa anche propendere per un’idea “espansionistica” della metafora non più soltanto in una prospettiva spaziale ma piuttosto anche temporale: la metafora è il modo contrastare la inersiale “sequenzialità” della prosa, recluta non soltanto nuovi territori ma anche e soprattitto nuove “ore” (la lontananza avvicinata o la vicinanza “prismatizzata” di tutti i libri di Nabokov). Ed è divertente pensare anche alle “evoluzioni” rotatorie dell’ascia (nei film horror).
Credo infine -e mi scuso per la prolissità- che l’ascia in Shining sia impugnata allo scopo di smantellare rudimentalmente l’ossessione geometrica di cui la storia è invasata, per distruggere il tempio della simmetria che cova sotto le fondamenta di tutti i film di Kubrik (e che è architettonicamente esautorato soltanto da due scene: la cura Ludovico in Arancia meccanica e l’orgia di Eyes Wide Shut). Sono pertanto d’accordo sulla iniziale critica alla ingenua rappresentazione evoluzionistica (amico al posto dell’ascia) ma mi sembra che tutta l’opera di Kubrik sia profondamente antiscientista.
Ho l’impressione che, complice forse la tua competenza cinematografica, abbia letto il post pensando perlopiù a Kubrick, che invece qui è semplicemente un punto di partenza per proporre riflessioni frutto, sia chiaro, non del mio sacco bensì di quello del biologo Lewis Wolpert. Dunque non sono io che alludo ma Wolpert. Io mi sono limitato a riassumere in poche righe (spero in termini non troppo approssimativi) il contenuto di un intero libro, il cui argomento di fondo è il meccanismo evolutivo che ci ha portato a vedere un nesso di casualità anche dove gli estremi di causa ed effetto non sono immediatamente legati. L’idea di Wolpert, semplificando parecchio, è che il pensiero religioso sia all’origine del pensiero scientifico e tecnologico. Egli cita l’osso di 2001 soltanto come esempio di nesso di casualità non immediato quale può invece essere quello fuoco/bruciarsi. Dunque non interpreta Kubrick, se mai ridiscute Darwin. Ribadisco tutto ciò, non perché penso che tu non l’abbia inteso ma soltanto per precisare che questa riflessione, pure suggestiva, non va identificata col mio pensiero in assoluto né sull’idea che mi sono fatto dell’opera di Kubrick; idea certo meno meditata della tua, giacché sono uno spettatore emotivo e dunque superficiale, e mai mi aveva sfiorato l’ipotesi che egli fosse “profondamente antiscientista”, come tu sostieni e (ripensandoci) non senza ragione.
Ma no, io infatti sospettavo la strumentalità “contraffatta” da parte di Wolpert, non certo da parte tua. Ed è questo il punto. So bene che l’osso era un mezzo per una riflessione sulla dottrina evolutiva. Ma secondo me ha poco senso -eticamente?-allegare un esempio dal magnanimo patrimonio (in questo caso “oggetuale”) kubrikiano per corroborare una propria tesi se la visuale di kubrik è come io congetturo (non lo so per certo, mai letta una sua intervista o biografia) opposta alla enfasi del nesso di casualità. Ecco perchè ti parlavo di metafore; se si vuole, in termini positivisti potremmo considerare la metafora come una questione di nessi causa-effetto dell’immaginazione, Una immagine ne causa un’altra (solo in questo modo avrebbe secondo me ragion d’essere il vessillo della precisione linguistica-per i miei gusti troppo invocato nel campo della letteratura). Apprezzo molto la tua elegante formula con cui ti riferisci alle probabilità che io abbia inteso lo spirito dell’articolo. Penso di sì. Ma diciamo che approfittavo, anche della combinazione con il tuo bel saggio breve precedente riguardo a 2001,di questo procedimento argomentativo di Wolpert, a mio avviso vizioso e da te esposto senza nessuna approssimazione, per accennare il mio disaccordo personale nei confronti della tesi scientista che appunto perora -mi pare- un sempre maggiore ampliamento della sfera delle relazioni causa-effetto. Mi appellavo giocosamente a Kubrik per dire che per me non è così. L’effetto dell’osso del resto a mio avviso non è l’arma. In nessun caso, linguisticamente. Sennò a che pro esiste il concetto di arma impropria?Quanto all’atteggiamento di Kubrik posso rettificare la radicale posizione che ho espresso parlando piuttosto di ostilità verso l’idolo dello scientismo. Infine, è certo -mi sembra- che la religione sia alla base del culto verso il pensiero scientifico e teconologico. Lo è storicamente. Lo è dopo il medioevo. La domanda è però se questa sostituzione è in effetti “una evoluzione” o no; l’altra domanda (sempre secondo me) è se questi due termini sono davvero opposti in senso hegeliano o non piuttosto differenze, sfumature di una ansia o facoltà immaginativa ma forse portatori di valori difficilmente compatibili o meglio compatibili “esercitando delle difficoltà”.
Permettermi una battuta finale: non credo che spettatore emotivo sia una nozione incompatibile (torno a quest’aggettivo) con quella di spettatore non superficiale. Accettando il tuo implicito ricnonoscimento di competenza nei miei riguardi (ma sono un laureato il legge) aggiungo soltanto che: mi considero uno spettatore molto emotivo; ti considero una persona (come minimo) intelligente e un bravo scrittote e quindi con una forte (magari tuo malgrado!) vocazione alla non-superficialità (come del resto ho sperimentato leggendoti fin qui).
Gran bel post Tommaso. Tempo fà mi era capitato tra le mani il libricino di Lewis Wolpert, cercherò di dedicargli un po di tempo il prima possibile.
A proposito hai sentito degli studi dei ricercatori del King’s College? A quanto pare la memoria nonostante tutto non ce la siamo giocata!:)
Grazie, Andrea. Degli studi di cui parli non sapevo, ma è confortante sapere che si sia rimasto ancora qualcosa 🙂