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John McCracken, “Plank” (1967)

Chi ha realizzato il celebre monolite di 2001: Odissea nello Spazio? O per meglio porre la questione: chi ha avuto l’idea che la forma ideale per un guardiano alieno dell’evoluzione umana fosse un sottile e liscio parallelepipedo nero? Fu lo stesso Stanley Kubrick a disegnarlo? E se fu lui, prese ispirazione da un preciso oggetto o lo immaginò dal nulla, tenendo presente soltanto il racconto di Arthur C. Clarke? Nel mondo dell’arte si è per lungo tempo vociferato che all’origine del monolite ci fosse l’opera di John McCracken. Ancora oggi sono in molti a ritenere che a realizzarlo sia stato proprio questo minimalista californiano, apparso sulla scena poco dopo i grandi capostipiti di quella tendenza, Donald Judd e Dan Flavin. In effetti, il monolite sembra identico o comunque molto simile alla serie Planks, risalente alla seconda metà degli Sessanta ossia proprio al periodo in cui il film era in produzione. Su trattava di assi, tavole di legno rettangolari, alte e sottili e rivestite in resina di poliestere. Erano sabbiate e levigate con cura, così da ottenere una superficie perfettamente piana che potesse catturare lo sguardo o invitare a toccarle, proprio come le scimmie e gli astronauti di Kubrick. Un solo aspetto li faceva diversi dal monolite: erano troppo sottili per restare stabilmente in posizione verticale. Pertanto venivano appoggiati alla parete, diventando quasi parte integrante del muro, un asse d’appoggio o magari di comunicazione col suolo, col pavimento. Ma a parte questo, erano uguali al monolite guardiano di 2001. McCracken è stato più volte interpellato sull’argomento. Sussisteva una ragione precisa, profonda, per invitarlo a scandagliare il significato di questa analogia: McCracken credeva agli alieni. Ci credeva alla maniera dei californiani ossia come si crede a una cosa evidente, certa, sulla quale non vale la pena di discutere perché è così è basta. Non meraviglia dunque se, spiegando le sue motivazioni, dicesse: “Voglio che le mie sculture sembrino essere state portate da un’altra dimensione”. E ancora: “Cerco davvero di fare le cose in modo che sembrino giungere da qualche altro luogo, da un Ufo o un ambiente avveniristico”.

2006: installazione di John McCracken nella galleria Zwirner, una delle ultime mostre dell’artista.

McCracken non scoprì subito la sua vocazione artistica. Dapprima passò un certo periodo in Marina. Si imbarcò su una nave militare. Faceva l’operatore sonar. E era mentre in mare, su questa nave, nella sua postazione sonar, si chiese cosa intendesse fare della propria vita. Fino ad allora aveva fatto un po‘ di tutto. Ci pensò su e decise che sarebbe diventato artista: “Ho deciso di farlo e basta. Non sapevo cos’altro fare. Non seppi cosa mi aspettasse e cos’è un’artista finché non mi iscrissi al California College of Arts and Crafts”. Nel periodo in cui frequentava il college andava spesso in spiaggia. “C’erano molti legni e mi divertivo a farne qualcosa”. Per via della spiaggia e delle assi, il suo lavoro è stato spesso letto in chiave surfistica. Ma ad attrarlo era, più in generale, lo stile di vita della California, la sua cultura, genialoide, sciroccata, intrisa di inevitabile creatività. In particolare lo interessavano le automobili, le loro finiture. “I materiali usati per la carrozzeria delle automobili erano gli stessi che adoperavo e che imparavo a usare per le mie opere. Non mi interessavano le tavole da surf, sebbene alcuni lo pensassero, quanto le automobili. Non che tutte le finiture fossero eccezionali, ma la luce a Los Angeles aiuta e comunque si vedevano, qui e lì a Los Angeles, bagliori ‘ispiratori‘ che mi inducevano a uscire dagli schemi per fare ciò che intuivo possibile”. Più in là, McCracken cominciò a tenere un diario di quelli che lui chiamava “Viaggi psichici” e “Visualizzazioni remote”. Vi registrava i suoi incontri ravvicinati con alieni, con esseri dalla mente superiore e anche con il fantasma di suo padre. Un esempio: “Un contatto che ho avuto quando ero adolescente negli anni Cinquanta, nella California del Nord: una notte viaggiavo nel vano posteriore di un pickup e lanciai un interrogativo in direzione delle stelle: C’è vita lì? Con mia sorpresa, la risposa giunse immediata: Sì!” E ancora: “Questa sera ho cercato di attuare un’esperienza fuori dal corpo e di incontrare un alieno. Sono riuscito a intensificare le vibrazioni interne ma, salvo questo, non ho ottenuto molto”. John McCracken è passato a miglior vita lo scorso 8 aprile all’età di 76 anni. Piace pensare che ora si trovi in una condizione simile a quella descritta in un appunto del suo diario, datato 24/3/97 12:15: “Mi trovo in un altro sistema solare della nostra galassia e vedo un complesso di stazioni spaziali che circondano un pianeta. Ho una sensazione di familiarità, una bella percezione. C’è tanta gente qui che conosco, un viavai, molta agitazione relativa a qualcosa”.

John McCracken fotografato da Frank J. Thomas nel suo studio a Costa Mesa, California. Siamo nel mezzo degli anni ’60.

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4 thoughts on “L’UOMO DEL MONOLITE

  1. Credo che la morfologia che Kubrik reclutò per “alienare” le sue immagini e per da un lato “entrare” -vichianamente- le ere umane da una visuale ascendente e per dall’altro dare materia alla adamantina natura del cinema come installazione di un asse visivo (di una leva archemidea) sia la più vertiginosamente “imputabile” di tutte. Cioè aperta a tutte le genealogie. Legittime tutte le fonti. A me la foto della stanza riempita con questa specie di particelle elementari di McCracken fa pensare alle stele funerarie dei cimiteri americani ma virate dal bianco al nero. Ma quello che mi sembra pacifico (scherzando con questo aggettivo in combinazione con l’odissea) è che la qualità essenziale è paradossalmente non morfologica. E’ la levigatezza. La radicale assenza di increspature. Ossia la stessa fusione di angelologia e demonologia che Kubrik assegna alla ragione simmetrica. L’Overlook Hotel fa impazzire Jack Torrence così come l’immunità (quasi di amianto) del parallelepipedo alle scorie della forma schiaccia, sonoramente, gli esploratori. E con la sua “concentrazione” figurativa (con una pelle da bebè) li spaoglia, li “primatizza”. Un poì quello che fa Morandi con i fenomeni della orizzontalità e della vericalità, ma più radicalmente. Ballando il liscio.Il monolite è il fattore assoluto di detergenza del mondo fenomenico. Dalle sue radiazioni secondo me nasce il cinema di M,Mann. il suo dolore muto viene invece dalla frase-capitolo di Mentre Morivo di Faulkner,”mia mamma è un pesce” e dal pesce con un occhio solo arenatosi sulla spiaggia di La dolce vita.

    • Sottoscrivo la tua analisi; in primo luogo quando poni l’accento sulla levigatezza. È questa proprio qualità che fa del monolite un oggetto che contraddice la sua consistenza fisica e spinge pertanto a toccarlo, a intravedervi un messaggio, un annuncio della nozione di causa/effetto in chiave trascendente.

  2. Sì, questo concetto della istigazione alla palpabilità è molto giusto (e mi piace il cenno alla tuta degli astronauti). il monolite così assurge al rango di una sorta di “donatore universale”. E’ il polisemantico che nell’imminenza di esplodere si rapprende, si “sistema”. Io penso anche alle statue di De Chirico di cui lui stesso disse (o così risulta dallo splendido libro di F.Prokosch) che racchiudevano o sprigionavano (e secondo me questa idea insieme di immettitore ed emettitore, di convergenza massima e di massima potenzialità centrifuga è propria della nozione e delle sembianze del monolite) “una poesia che è serena in apparenza ma percorsa da un’oscura inquietudine”.

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