Manoscritto o manufatto? Qualunque sia la definizione più appropriata una cosa è certa: acquistandolo all’asta per la ragguardevole cifra di due milioni e mezzo di dollari, Jim Irsay, proprietario di una squadra di football di Indianapolis, si è aggiudicato un pezzo di leggenda. C’è forse un altro modo, infatti, per definire il rotolo di 36 metri sul quale Jack Kerouac scrisse Sulla strada? “Mi procurerò un rotolo di carta da infilare nella macchina da scrivere” disse a un amico, “e scriverò le cose il più veloce possibile, esattamente come sono successe, tutto in una botta, e al diavolo quelle fasulle architetture”. E così fece. Si procurò dei rotoli per telescrivente e li unì con dello scotch, in modo da ricavare un nastro sterminato che gli consentisse di battere a macchina senza dovere fermarsi per cambiare foglio. Dopodiché si rintanò nella sua casa sulla 20 Strada, a New York, e al ritmo di cento parole al minuto, ovvero in sole tre settimane, portò a compimento il romanzo destinato a diventare il manifesto del movimento beat e di molte generazioni a venire. Era l’aprile 1951. “Ci sono due tipi di cose che la gente come noi è solita fare” commentò due decenni più tardi un noto esponente del New Journalism. “Le cose che facciamo perché abbiamo letto Hemingway e quelle che facciamo perché abbiamo letto Kerouac”. Quali siano queste cose è presto detto. Sono tutte riconducibili alla inebriante e scapestrata filosofia del mollare tutto e andare. Unica stella polare, il punto in cui la strada bacia l’orizzonte. Vivere fuori dalle regole, perennemente in giro e sbarcando il lunario, alla maniera dei vagabondi. È questo il mito. Non per nulla, oltre a vendere più di centomila copie ogni anno, Sulla strada vanta l’insolito primato di essere il titolo più rubato nelle librerie americane, tant’è che spesso non lo si trova esposto negli scaffali bensì dietro le casse, al sicuro dai taccheggiatori. Come da copione, il mito non poteva non generare altri miti. Vedi Bob Dylan, che racconta di averlo scoperto quand’era ancora adolescente e di esserne rimasto sconvolto. O David Bowie, che grazie a Kerouac capì di non essere obbligato per sempre nel sobborgo a sud di Londra dove era cresciuto. Quanto a John Lennon, il nome “Beatles” parla da sé. Passando per Jim Morrison e Bruce Springsteen, anch’essi suoi ammiratori, si arriva a Johnny Depp, che ha sborsato diecimila dollari per un impermeabile appartenuto allo scrittore. “Kerouac ha aperto milioni di bar e venduto milioni di Levi’s” sentenziò alla sua cinica maniera William Burroughs, restituendo la dimensione di un fenomeno che non ha eguali nella letteratura contemporanea.
Stupisce soltanto che nessuno ne abbia mai ricavato un film. In realtà, Kerouac fece il suo bravo tentativo, ed è proprio il caso di definirlo così, “bravo”, giacché nel 1957 ebbe l’ardire di scrivere addirittura a Marlon Brando proponendogli di acquistare i diritti. Non ricevette risposta e così i diritti furono acquistati soltanto nel 1980 da Francis Ford Coppola. Per una ragione o per l’altra il progetto non è decollato sino al 4 agosto 2010, data in cui hanno avuto finalmente inizio le riprese. Sono affidate alla regia di Walter Selles, quello dei Diari della motocicletta. Di questi giorni è anche l’uscita della traduzione italiana del mitico rotolo. La differenze con il libro dato alle stampe nel 1957 non sono poche. La leggenda delle tre settimane di furia creativa ebbe infatti un travagliato seguito. Terminato il romanzo, Kerouac si precipitò eccitato nell’ufficio del suo editor, il quale lo scrutò costernato; riteneva che il tipografo avrebbe avuto qualche difficoltà a ricavare un volume da quella roba. Lo scrittore, offeso, si riprese il papiro e partì per nuovi vagabondaggi che gli fruttarono materiale per nuovi romanzi da battere a macchina su altrettanti rotoli. Ci vollero sei anni perché qualcuno si convincesse che Sulla strada andava pubblicato. L’illuminato editore pagò il non generosissimo anticipo di mille dollari a rate, accampando la scusa che altrimenti lo scrittore l’avrebbe sperperato in pochi giorni. Impose inoltre alcuni aggiustamenti, a cominciare dall’espunzione di quelle scene che, per oscenità o altro, comportavano il rischio di vertenze legali. Per lo stesso motivo, fu deciso di attribuire nomi fittizi a tutte le persone menzionate nel libro. Kerouac se ne rammaricò, ma la cosa che proprio non mandò giù fu la gran quantità di punti e di virgole aggiunti al testo originale. A suo dire, era una deturpazione della spontaneità dell’opera. A suo dire, però. Perché ogni leggenda ha un suo lato apocrifo, e quella del rotolo non fa eccezione. John Sampas, cognato di Kerouac nonché suo esecutore testamentario, ritiene che il parente acquisito giocasse con le parole: “Quando raccontava del rotolo dava l’impressione che avesse scritto il romanzo di getto, in una ventina di giorni. Ma io credo che sarebbe stato più corretto dicesse un’altra cosa e cioè: l’ho battuto a macchina in tre settimane”.
Kerouac predicava la prosa spontanea e lasciava quindi intendere che scrivesse come gli veniva, confidando sull’attimo fuggente e senza cambiare una virgola. La verità è che era un artigiano certosino, completamente devoto al mestiere. Leggendo i suoi diari risulta evidente che pensava al romanzo da anni. Quando si rintanò nel suo appartamento a Chelsea, non aveva con sé soltanto quel rotolo di trenta metri. Era circondato da quaderni fitti di appunti. Alla maniera di un musicista jazz, non procedette a caso. Improvvisò su un motivo che conosceva benissimo. Chi lo vide riferisce che picchiava sui tasti a una velocità impressionante, il che alimentò la diceria che si aiutasse con droghe o stimolanti particolari. Non è così, ma almeno su questo fu sincero. “Ho scritto quel libro col caffè” confessò. “Benzedrina, erba, tutte storie… niente stimola la mente come il caffè”. E non è neanche vero che se ne fregò della punteggiatura. Chi vorrà prendersi la briga di leggere la versione del rotolo si renderà conto che Sulla strada è sì un unico lungo paragrafo dove le parole corrono via veloci come auto su un nastro d’asfalto, ma i punti e le virgole sono messi al punto giusto. D’altra parte, è pur vera un’altra cosa: è davvero importante il modo in cui si scrive una leggenda?
Azz… per non averlo ancora letto mi sento un grandissimo idiota…
Non c’è ragione di sentirsi idioti: non avere letto un bel libro è fonte di felicità, significa che si dispone di un piacere ancora da scoprire.
Un bel modo di vedere le cose… Il problema è il tempo che manca o che, incoerentemente, facciamo in modo che manchi. La lista dei libri da leggere aumenta notevolmente ogni mese. Ma poi, come dice lei… che soddisfazione quando finalmente lo stringiamo tra le mani e vola nella nostra testa!