William T. Vollmann esordì nel 1987 con un visionario romanzo dove si parlava di insetti che si ribellano al malvagio potere dell’elettricità. Si intitolava You bright and risen angels e gli insetti rivoluzionari erano chiaramente l’incarnazione dei popoli che nel corso della storia sono stati oppressi dall’uomo bianco ovvero tecnologico. Da allora lo scrittore non ha mai smesso di raccontare la lotta per la sopravvivenza combattuta da tutte quelle forme di vita che agli occhi della «civiltà» appaiono piccole, marginali, altamente sacrificabili. Sono insetti gli Indiani d’America il cui sterminio da parte dei bianchi è narrato nei Seven Dreams (fantasmagorica epica in sette volumi alla quale Vollmann attende da anni) e sono insetti i vagabondi, le prostitute, i tossici, gli alcolisti, i disperati, i maniaci, gli skinhead, i veterani del Vietnam, i ribelli afgani e gli altri emarginati che popolano i suoi libri, da Storie di farfalle a Puttane per Gloria, dai Racconti dell’Arcobaleno a Rising Up and Rising Down, gigantesco trattato di oltre tremila pagine sulla violenza pubblicato per i tipi della McSweeney’s Books.
Il più forte contro il più debole, la vittima davanti al suo carnefice, il grande che spazza via il piccolo. Da sempre il cuore dell’opera di Vollmann ruota intorno a questo elementare e universale dualismo. Ed è un cuore che non parteggia per nessuno, batte e palpita soltanto per la dinamica del conflitto anche quando sembra che nutra simpatia per gli oppressi. Le puttane, per esempio. Lo scrittore ama le sue puttane, come lui le chiama. Le ama sinceramente. Ciò non significa però che egli desideri riscattarle, che sogni di strapparle al loro inferno di abiezione. Le ama semplicemente perché è sulle vittime che si imprimono i segni della violenza, perché è l’insetto a fare rumore, non la scarpa che lo schiaccia. Ci sono un paio di pagine di agghiacciante bellezza nelle Tredici storie per tredici epitaffi, cinquantuno righe che da sole varrebbero il prezzo dell’interno volume (se ancora fosse disponibile in libreria la traduzione italiana di Chiara Belliti e Simona Vinci apparsa anni fa per i tipi di Fanucci). Vi troviamo lo scrittore che fa l’autostop e viene caricato da un veterano del Vietnam con una placca di acciaio nel cranio. Il veterano spiega allo scrittore che era nelle Forze Speciali, gli dice che è uno che sa come si uccide, che potrebbe uccidere chiunque in pochi secondi. Infatti ha ucciso tante persone tra cui anche Mien, una ragazza di quattordici anni che si scopava un operatore radio. Per l’Ufficiale Comandante, Mien era una «charlie», una spia che passava i codici ai vietcong, sicché ordinò all’uomo delle Forze Speciali di eliminarla. L’uomo racconta allo scrittore di come abbia portato Mien in un parco su una collina sopra Saigon per chiederle se fosse davvero una charlie.
Mien tremava come una foglia. Lui voleva baciarle il seno e intanto seguitava a domandarle «Sei una charlie?» Mien farfugliò qualcosa, lui la pugnalò alla gola. Quindi le tagliò la testa e la sbatté sulla scrivania dell’Ufficiale Comandante dicendo: «Se un giorno dovesse scoprire che qualcuno le ha indicato la ragazza sbagliata, non me lo dica mai, brutto bastardo negro figliodiputtana, signore». Lo scrittore riporta le parole del veterano immaginando di rivolgersi direttamente alla povera Mien ormai defunta. È un epitaffio, il suo. Un dialogo con la tomba di una ragazzina vietnamita. Fingendo di parlare a questa tomba, è come se egli ricordasse a ciascuno di noi che Mien è dovuta morire affinché potessimo ascoltarne la storia; è come se ci dicesse che dietro ogni racconto c’è sempre una morte o comunque una perdita, un atto di violenza verso qualcuno o qualcosa di vivo. «Una buona storia è solo un carro funebre che ti può trasportare al finale, dove l’epitaffio attende». È la morale del prendere o lasciare. E Vollmann prende. Certo, egli prova grande empatia per le vittime sacrificali delle sue storie, e anche se non lo dice esplicitamente si intuisce che l’idea di una testa mozzata e sbattuta sul piano di una scrivania lo faccia rabbrividire. Allo stesso tempo lo stile della scrittura tradisce quanto egli sia affascinato da tanta brutalità. D’altro canto stiamo parlando di uno scrittore che è una sorta di Hemingway psichedelico, un Burroughs con vocazioni machiste, un incrocio tra le due cose.
Vollmann ha trascorso l’infanzia nei bassifondi di Los Angeles. «Spesso venivo picchiato quando uscivo di casa, ma mi sono fatto degli amici» ricorda. All’inizio degli anni Ottanta si è trasferito a San Francisco e dopo aver messo da parte qualche soldo è partito per l’Afganistan dove si è unito ai ribelli che allora combattevano contro l’esercito di occupazione sovietico. Da allora o ha viaggiato nei luoghi più estremi o ha bazzicato le zone meno raccomandabili di San Francisco, spesso in compagnia Ken Miller, il fotografo di «strada» che per lui è stato un po’ ciò che Neal Cassady fu per Jack Kerouac. Guidato da Miller, Vollmann ha accostato esiliati, frequentato prostitute e skinhead, fumato crack, condotto la stessa pericolosa esistenza senza fissa dimora propria dei derelitti.
A renderlo straordinario è il modo di raccontare, di non considerare mai la testimonianza diretta come un fatto d’elezione. Il suo è un genere di prosa che non si limita al mero giornalismo né tantomeno alla semplice rielaborazione narrativa. Tutti i racconti, pur conservando il sapore inconfondibile di ciò che è reale, hanno comunque un che di allucinato e indefinibilmente sospeso nel tempo. Si direbbe quasi che Vollmann voglia spogliarsi di tutto fuorché della parola. Tredici storie per tredici epitaffi è un libro letterariamente molto raffinato, ricco di similitudini e metafore ricercate, di periodi arabescati, di rimandi continui e disparati: Poe, Whitman, Lautremont, Agostino. Ciò nonostante riesce a essere anche estremamente animalesco, istintivo, immediato, a tratti perfino ingenuo. Nella sua amorale curiosità per il mondo, è inoltre spaventosamente triste, soggiogato da una sorta di senso cosmico della perdita; perdita dell’innocenza, della vita, di qualunque cosa sia possibile perdere. È il canto vano, poetico e sublime di un insetto che vorrebbe schiacciare la civiltà, un’incondizionata dichiarazione d’amore nei confronti della natura, qualunque spietata sembianza essa possa assumere. È l’abbacinante abisso di un conflitto eterno. Perché questo è in sostanza William T. Vollmann: una balena bianca e il suo capitano Achab, entrambe le cose insieme e indissolubilmente