Chi non ricorda la sequenza di quel film di Fellini dove vengono rievocati gli incidenti archeologici occorsi durante gli scavi per la realizzazione della metropolitana di Roma? L’Urbe rappresenta di certo un caso assai particolare, ma un po’ ovunque, in Italia come nel resto d’Europa, Storia e territorio appaiono intrecciati a filo doppio. Ruderi, monumenti e antichi palazzi sono apparizioni tutt’altro che inconsuete. Da noi, il passato è un fatto ben visibile, una parte integrante — talvolta persino ingombrante — del paesaggio. Non per niente viviamo in un mondo che noi per primi definiamo vecchio. Può dunque capitare che gli europei in viaggio negli Stati Uniti si sentano un po’ persi in un paese dove, natura a parte, tutto sembra nuovo. Sembrare ed essere non sono però la stessa cosa. E infatti, prima di identificarlo in un luogo reale, il Nuovo Mondo fu una fantasia, un’invenzione, un sogno, un utopia, come quella immaginata da Thomas More nel 1516 sulla base dei resoconti di viaggio di Amerigo Vespucci. Solo in un secondo tempo l’idea del Nuovo Mondo fu trapiantata aldilà dell’Oceano Atlantico dando vita a miti come quello della Frontiera. In breve l’invenzione si trasformò in una falsità, un imbroglio dell’uomo occidentale ordito ai danni di altre genti o, se vogliamo, una forma di esproprio della terra altrui. Quel mondo non era affatto nuovo. E non soltanto perché non era disabitato, ma perché, a quanto pare, era stato scoperto ben cinque secoli prima di Colombo da navigatori non meno esperti. Il lapalissiano assioma per cui non può esserci nulla di nuovo senza un qualcosa di vecchio che lo preceda vale per ogni posto del mondo. Ma pur non rappresentando un’eccezione, l’America vanta questa particolarità: passato e presente non abitano gli stessi luoghi. Non a caso, buona parte dei miti americani non raccontano di eventi accaduti ma parlano del futuro, di mete da raggiungere, cose da ottenere, del cosiddetto «pursuit of happiness», il diritto alla ricerca della felicità sancito nella dichiarazione d’indipendenza e convertito successivamente nel popolare miraggio del sogno americano. Ma che dire del passato vero, quello del territorio? Cosa ne è stato? Ha lasciato qualche traccia? E se sì, dove cercarle?
Quantunque la presenza di imponenti ruderi millenari non rappresenti la norma, gli Stati Uniti non sono privi di passato. Forse non salta immediatamente agli occhi ma è pur sempre lì. Broadway, per esempio: il nastro d’asfalto che taglia diagonalmente l’isola di Manhattan corre sopra un antico sentiero tracciato dagli indiani. L’autentico passato americano è di questa natura, una sorta di fantasma, un’entità pressoché invisibile, così mimetizzata nel territorio da sparire. Da ciò è partito William T. Vollmann per definire le coordinate di uno fra i più ambiziosi progetti letterari mai concepiti, il ciclo dei Sette Sogni del paesaggio americano. «È nato dai Racconti dell’arcobaleno» spiega lo scrittore. «In quel libro si parlava delle aree di parcheggio dove le prostitute esercitano il loro mestiere. Così mi sono chiesto che aspetto avesse il paese prima che fosse pieno di parcheggi». Vollmann è noto per essere un assiduo frequentatore di prostitute. Per lui, rappresentano un efficace strumento di comprensione del mondo e nel corso dei suoi innumerevoli viaggi attorno al globo vi ha fatto regolarmente ricorso. I Racconti dell’arcobaleno parlano di ciò che ha visto e imparato frequentando i bassifondi. Pubblicato nel 1989, è il suo secondo libro, quello che lo ha imposto all’attenzione della critica che vi intravide un nuovo modo di scrivere, a metà strada tra il giornalismo di Tom Wolfe e l’affabulazione di Thomas Pynchon. L’anno seguente vide la luce La camicia di ghiaccio il primo dei sette sogni. La parola sogno è ovviamente usata in alternativa a romanzo: questi sette volumi vanno infatti intesi come un’unica grande opera collocabile in una zona grigia tra narrativa e storia. Motivo conduttore è il difficile confronto tra le popolazioni native del Nuovo Mondo e i pionieri giunti dal Vecchio, «Mi hanno sempre interessato le Metamorfosi di Ovidio, e da Ovidio ho mutuato l’idea che nel nostro continente si siano succedute diverse ere, ognuna delle quali meno mitica della precedente. Per ragioni poetiche e didattiche ho stabilito che questa successione di epoche andasse suddivisa in sette momenti diversi e che pertanto ci sarebbero stati sette sogni».
Il progetto è da considerarsi ancora in progress, dato che finora sono portati a compimento soltanto quattro dei sette volumi annunciati. In ognuno si affronta un tema preciso: le guerre di religioni tra gesuiti e irochesi, la distruzioni delle tribù indiane delle grandi pianure, la carestia provocata dall’introduzione del fucile a ripetizione nell’Artico, la vicenda di Pocahontas. La camicia di ghiaccio risale ancora più indietro nel tempo, all’inizio di questo «immenso processo di degradazione» del mito americano: il presunto primo impatto dei nativi con esploratori stranieri, quello coi vichinghi giunti nel continente attorno all’anno Mille. Gli storici sono ormai più che propensi a ritenere che il favoleggiato sbarco precolombiano ci sia effettivamente stato. Resti di costruzioni in stile scandinavo scoperti in Canada sembrerebbero confermare che c’è del vero nelle due saghe nordiche medievali — la Saga dei Groenlandesi e quella di Erik il Rosso — dove si narra dell’accidentale scoperta da parte dei vichinghi di una nuova e radiosa terra e del loro breve quanto fallimentare tentativo di colonizzarla La chiamarono Vinlandia perché, oltre al frumento selvatico, c’erano grappoli d’uva dappertutto. La chiamarono anche la «Buona» perché i fiumi pullulavano di salmoni e il clima era tale che il bestiame non aveva mai bisogno di essere foraggiato perché, come è scritto in una delle saghe, «non c’era ghiaccio in inverno, e l’erba quasi non appassiva». Così gli scandinavi sbarcarono in tutta fretta dalle loro navi per bere la dolce rugiada, e forse anche l’aria, tanto era mite. Insomma, c’erano tutti i presupposti perché Vinlandia — che gli storici ritengono di poter localizzare nell’attuale New Jersey — diventasse un paradiso. Sfortuna volle, però, che quella terra fosse già abitata da altri, un popolo di «disgraziati selvaggi» che gli aspiranti colonizzatori iniziarono a truffare e uccidere nel sonno. Com’è facile immaginare, i selvaggi non accolsero di buon grado i nuovi arrivati e diedero battaglia, costringendo infine gli scandinavi a tornare da dove erano venuti. Vinlandia fu dunque lasciata in pace per altri cinque secoli circa, trascorsi i quali fu scoperta da nuovi esploratori e divenne quel che è ancora adesso, l’America. Vollmann inizia la sua versione della storia partendo da lontano ovverosia delle terrificanti faide in Norvegia che indussero profughi come Erik il Rosso a viaggiare verso Occidente, spingendosi prima l’Islanda e in Groenlandia, poi oltre.
Il motivo trainante è che, quantunque scacciati, gli scandinavi lasciarono come un segno. Vinlandia la Buona ne rimase irrimediabilmente contaminata. Gli invasori dalla pelle bianca come il ghiaccio infettarono il paradiso dall’aria mite con la sete di sangue, ricchezza e potere dilagante nel Vecchio Mondo. Questo male che viene personificato con suggestiva efficacia nell’arrivo dell’inverno. «Voglio qui raccontare la storia di come venne consumata la rugiada e di come arrivò il gelo» scrive in tono epico Vollmann. L’immagine non ha però un valore soltanto simbolico, trova anche un riscontro storico nel fatto che il clima nord-atlantico si fece più rigido proprio nel tardo medioevo. Il ghiaccio dunque come metafora di una corruzione sia morale che ambientale, il gelo come prima grande mutazione del paesaggio americano e melanconica anticipazione di scelleratezze a venire, di altri razzismi e futuri inquinamenti. Vollmann non si è limitato a una rivisitazione romanzesca di saghe scandinave, leggende indiane e racconti eschimesi. Ha visto con i propri occhi i luoghi della storia che intendeva raccontare, i siti vichinghi di L’Anse-aux-Meadows a Terranova, i resti della fattoria di Erik il Rosso in Islanda, le rovine norvegesi in Groenlandia e la vasta distesa ghiacciata dell’Isola di Baffin. Di questi viaggi regala impressioni disseminandoli qua e là nel testo in forma di fugaci digressioni, e siccome è un narratore di impareggiabile talento, questo saltabeccare dai vichinghi a giorni nostri non appare mai gratuito o forzato. Quando, per esempio, riferisce delle odierne tensioni tra gli esquimesi e le popolazioni di etnia danese residenti in Groenlandia l’impressione è quella di un guardarsi in cagnesco che discende in linea diretta dal medioevo. Il libro non sta in piedi per intero, particolarmente nella parte finale dove sembra perdere il bandolo della matassa, ma Vollmann è uno scrittore che si prende rischi colossali. Una portentosa immaginazione gli consente di dare forma a masse incredibilmente eterogenee di materiali. Può forse sconcertare l’apparente ambiguità che fa da sfondo morale alle sue storie. I vichinghi della Camicia di ghiaccio si fanno odiare per la loro efferata cupidigia, ma risultano al tempo stesso affascinanti e persino nobili nella loro estrema audacia. Il fatto è che la visione che Vollmann ha delle cose è amorale. Prova simpatia e compassione per il più debole ma accetta e ama la natura per quello che è: che il più forte prevarichi e abbia quasi sempre la meglio è una costante di natura. Se ne trova conferma in un’altra e più mastodontica impresa costata all’autore ben ventitrè anni di lavoro, Come un’onda che sale e che scende. Questa indagine sulla violenza in sette volumi non guarda tanto al male come categoria morale ma come espressione dell’animale uomo, espressione che è a volte frutto di calcolo razionale e pertanto relativamente giustificabile, altre di un puro istinto di sopraffazione e dunque assolutamente aldilà di ogni considerazione morale. E comunque sia, per quanto difficile da accettare, qualunque atto violento ha una sua spiegazione e dunque una ragione di essere per quanto difficile da accettare. Nella nota introduttiva Vollmann cita il seguente ritratto di Napoleone per spiegare come, anno dopo anno, questa sorta di enciclopedia sulla violenza lo abbia tenuto prigioniero e quale sollievo abbia rappresentato il liberarsene una volta portata a compimento: Napoleone «teneva in pugno la nostra immaginazione, con mano ora d’acciaio ora di velluto, e non si poteva prevedere come sarebbe stato l’indomani, cosicché non c’era modo di sfuggirgli». La stessa cosa potrebbe dire il lettore di Vollmann: ci sono pagine per cui non si può non amarlo e ci sono pagine per cui è fin troppo facile odiarlo, ma in entrambi in casi non c’è modo di restare indifferenti al suo modo unico di guardare il mondo.
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