Home


“I have a dream” disse Edward Mukaka Nkoloso. Lo disse anche Martin Luther King, certo, e prima di Nkoloso (un anno prima, per l’esattezza). Ma se la figura del pastore di Atlanta, leggendaria bandiera della lotta per i diritti civili, è nota a tutti, quella di Nkoloso è pressoché dimenticata. Si ignora persino quale fine abbia fatto, se sia ancora vivo. Non era che un’insegnante di scuola elementare, ma un bel giorno del 1964 annunciò al mondo di avere dotato il suo paese, lo Zambia, di un programma spaziale. In fondo, anche il suo era un sogno di uguaglianza. Se bianchi e neri erano davvero uguali, per quale ragione l’Africa avrebbe dovuto sentirsi esclusa dalla grande corsa alla conquista della Luna? Di più, perché mai non avrebbe potuto battere sul tempo i due grandi contendenti di allora, Stati Uniti e Unione Sovietica? Non soltanto Nkoloso era convinto di farcela. Non soltanto riteneva di raggiungere lo straordinario obiettivo nel giro di un anno al massimo. Puntava anche oltre. La sua fiduciosa immaginazione si spingeva sino al pianeta Marte, dove contava di portare una ragazza diciassettenne, Matha Mwamba, e una decina di gatti.


I mezzi erano limitati, s’intende, e perciò il sognatore richiese un finanziamento di settecento milioni di dollari alle Nazioni Unite. Si era già rivolto alla Casa Bianca per un rifornimento di ossigeno e idrogeno liquidi, malgrado accusasse gli americani di avere invaso lo Zambia di spie incaricate di carpire i suoi segreti spaziali, quei segreti che custodiva in una fattoria abbandonata nei dintorni di Lusaka. Era qui che il maestro iniziava i suoi allievi ai misteri del cosmo. Qui li temprava alle difficoltà che avrebbero incontrato una volta scagliati oltre l’orbita terrestre. Gli chiedeva di infilarsi all’interno di barili vuoti che venivano poi fatti rotolare lungo un pendio accidentato affinché si abituassero agli sballottamenti. Li faceva dondolare su una rudimentale altalena, una corda tesa tra due alberi che veniva tagliata a tradimento affinché i futuri astronauti sperimentassero la sensazione del vuoto. Per ammissione dello stesso Nkoloso, l’addestramento incontrava qualche difficoltà. Gli allievi peccavano di concentrazione. O meglio, peccavano in senso biblico, vale a dire flirtavano e amoreggiavano tutto il tempo. Tant’è che la giovanissima Matha, fiore all’occhiello della missione marziana, si ritrovò presto in stato interessante e fu ricondotta a casa dal padre, ponendo fine al programma spaziale.


A distanza di mezzo secolo, restano scarsissime tracce del sogno di Nkoloso. Qualche articolo scettico sui giornali dell’epoca e un breve servizio della Reuters visibile su YouTube dove il sognatore e i suoi indisciplinati accoliti vengono liquidati dal reporter come “una massa di svitati”. Ha dunque il sapore di un risarcimento la serie di foto realizzata dall’artista spagnola Cristina de Middel. Immagini velate di tenera malinconia e dai colori un poco sbiaditi, che rievocano la grana delle vecchie pellicole, la luce esangue e spiritata delle polaroid. Gli scatti mostrano paesaggi desertici e polverosi, un’Africa che sembra la landa gemella delle desolate distese marziane. In questo mondo sospeso appaiono come fantasmi gli afronauti. Indossano tute di stoffa variopinta e caschi somiglianti alle sfere di cristallo in cui gli indovini scrutano il futuro. Si aggirano tra lamiere arrugginite, fanno esercizi ginnici, abbracciano elefanti, si siedono pensierosi davanti a una tastiera. Oppure volgono semplicemente volgono lo sguardo al cielo, quel cielo che fantasticano di raggiungere. C’è tuttavia nobiltà nei loro sguardi, nella velleità della loro astronautica tribale. Ma c’è soprattutto la rivendicazione di un diritto preciso: l’uguaglianza di sognare imprese impossibili e sconsiderate.


Del resto anche la corsa allo spazio dell’uomo bianco è costellata di fallimenti e follie. Negli anni 30 del secolo scorso un certo Gerhard Zucker, ingegnere tedesco, tentò di persuadere le poste britanniche a servirsi di razzi per i recapiti nelle zone più remote. Il primo lanciò fu un tale disastro che Zucker venne rispedito a forza in Germania, dove fu arrestato con l’accusa di spionaggio. Un caso limite, vero. Uno squinternato non può offuscare altre e più gloriose imprese. Ma cosa accadde all’indomani dello sbarco americano sulla Luna? D’un tratto tutto diventò possibile. Nulla sembrò più precluso. Si prefiguravano scenari cosmici. Stando alle previsioni dell’epoca, oggi dovremmo prendere il sole su Marte. E invece. In capo a tre anni il programma spaziale venne di fatto cancellato. Da allora abbiamo costruito una stazione orbitale, affollato il cielo di satellite, inviato qualche sonda su Marte. Poco rispetto alle premesse. Ma non tutto il male venne per nuocere. Le aziende che fornivano complesse apparecchiature alla NASA dovettero immaginare nuovi usi della loro tecnologia. Fu proprio in questo quadro che la Intel mise a punto il primo microprocessore, la svolta che consentì di trasformare mastodontici calcolatori in dispositivi alla portata di tutti, ponendo le basi per un mondo di computer domestici e telefoni intelligenti. Non ci è dato di spostarci per le galassie, ma navighiamo nel quasi infinito universo della Rete. Non rimpiangiamo il cosmo mancato, dunque. Per quanto folle e impossibile, ogni sogno conduce a qualcosa. Ogni sogno è a suo modo una conquista. Foss’anche quello di un afronauta che vuole la Luna.

One thought on “AFRONAUTI

  1. Pingback: Gli Afronauti: il programma spaziale dello Zambia | iesterdei

I commenti sono chiusi.