Viene considerato il romanzo del Sogno Americano per eccellenza e, sebbene sia di fatto la cronaca di un fallimento dai contorni tragici e crudeli, non si può certo negare che il suo protagonista sia un sognatore. Per Jay Gatsby, smargiasso buono in abito rosa, la ricerca della felicità ha un nome. Si chiama Daisy. È un perduto amore di gioventù che egli sogna di riconquistare con un mezzo molto americano: il denaro. Quanto questo mezzo sia perversamente intrecciato alle pene del cuore lo attesta simbolicamente la luce che Gatsby vede brillare dall’altra parte della baia, sul molo della casa della casa di Daisy: una luce verde, lo stesso colore dei dollari. È inoltre ben nota l’ossessione di Fitzgerald per i ricchi, che lo scrittore considerava creature speciali, superiori ai comuni mortali. C’è tuttavia dell’altro. Fosse stato soltanto questo l’intento — raccontare la sua versione del “pursuit of happiness” — Fitzgerald avrebbe probabilmente scelto una voce diversa. Avrebbe potuto optare per il convenzionale narratore onnisciente, oppure lasciare la parola allo stesso Gatsby, magari escogitando un finale comunque fallimentare ma meno tragico. A spiegarci come sono andate le cose troviamo invece una terza persona. Nick Carraway, uno strano tipo di personaggio. L’essere cugino di Daisy e vicino di Gatsby lo colloca al centro degli eventi, nondimeno quasi mai il suo modo di prendervi parte va al di là di una passiva contemplazione. Il suo ruolo rievoca la dimensione marginale dello spettatore: non eccessivamente caratterizzato, lo si direbbe un personaggio messo lì dall’autore per svolgere una funzione assimilabile a quella rivestita nei romanzi dei tempi andati dai manoscritti ripescati in vecchi bauli: offrire una testimonianza. È lo stesso espediente cui ricorre Conrad in Cuore di tenebra:pur non arrivando agli estremi di Marlowe — che descrive Kurtz come pura voce —, anche Nick tende a disincarnare l’oggetto del proprio racconto. Nei primi capitoli del romanzo Gatsby è di fatto un fantasma. Sentiamo pronunciare il suo nome, sentiamo le fantasiose voci che circolano sul suo conto, lo vediamo stagliarsi scuro come un’ombra contro il cielo stellato di una serata estiva. Quando finalmente si presenta in carne e ossa, la sua figura è così ammantata di mistero che Nick stenta a riconoscerlo. Gatsby è difatti l’antitesi del mistero. Tutto in lui è scoperto, vistoso, eccessivo: il suo stile di vita, il suo modo di parlare, i suoi sogni. È inoltre l’antitesi di Nick, che in apertura di romanzo si presenta al lettore come un tipo riservato, misurato sia nelle parole sia nel giudicare il prossimo. Tradurre Il grande Gatsby significa in primo luogo confrontarsi proprio con questo contrasto: la moderazione del narratore da un lato, l’esorbitanza del protagonista dall’altro. Replicare la lingua misurata in cui si esprime Nick è certamente la strada maestra, ma può non essere sufficiente: per sua natura, l’italiano tende a imporre una maggiore esplicitazione, vanificando quell’essere “unusually communicative in a reserved way”, posto nelle righe d’apertura del romanzo come una sorta di dichiarazione poetica. Per paradosso, un’opzione possibile è percorrere la stessa strada ma in senso opposto.

La copertina dell’edizione distribuita gratuitamente ai militari di stanza all’estero nel corso del secondo conflitto mondiale (Armed Services Edition)
Mentre ero impegnato nella traduzione mi sono spesso confrontato con persone madrelingua. Non addetti ai lavori quali scrittori o studiosi, bensì semplici lettori. Gli chiedevo che effetto sortisse alle loro orecchie l’inglese di questo romanzo. La risposta era sempre più o meno la stessa: roba antiquata, nessuno parla più in quel modo. In apparenza, un commento ragionevole e scontato per un testo ormai ottuagenario. Tuttavia la fermezza col quale questi lettori consegnavano a un passato scomparso la lingua del Grande Gatsby mi sembrava eccessivo. Fatta eccezione per alcuni passi particolarmente sensuosi, Fitzgerald — memore anche di critiche ricevute in passato — ricorre a una scrittura spesso stringata e comunque esente da fronzoli inutili e frasi fatte. Nonostante il tempo trascorso, il tratto saliente del romanzo non è certo l’inattualità della lingua, soprattutto se paragonato a opere dello stesso periodo. Tanto per fare un esempio, la verbosità che Thomas Wolfe sfoggerà quattro anni dopo in Look Homeward, Angel ha raccolto molta più polvere. Mi è venuto dunque da pensare che la lingua del Grande Gatsby risulti più vecchia di quando in effetti non sia per altre ragioni. Lo scenario ha certo un suo peso. Col senno della Storia, le feste degli anni ruggenti possono apparire insopportabilmente effimere, e dunque lontane dalla realtà e nel tempo: i suoi boriosi e superficiali convitati, le sue flappers accompagnate da riccastri, contrabbandieri e arrivisti di vario genere, tutti gli abitanti di questo mondo che già all’epoca era un po’ fuori dal mondo, danzano e scherzano ignari del disastro che di lì a breve li spazzerà via, un disastro di cui il romanzo si fa in qualche misura profeta. La grandezza di Gatsby —il suo fallimentare idealismo sporcato di soldi facili — contiene in sé la grandezza della Depressione che attende l’America. Ai fini del nostro discorso può risultare tuttavia più determinante che quello del Grande Gatsby sia un mito tardivo. Lasciando da parte le tiepide reazioni della critica, nella immediatezza dell’uscita le vendite furono scarse malgrado la fama di cui ancora godeva il nome di Fitzgerald. Già nel 1925 l’età del Jazz cominciava a fare il suo tempo e non è assurdo ipotizzare un lungo oblio se nel 1940 — poco dopo la morte dell’autore — il romanzo non fosse stato incluso in una lista di letture da mettere a disposizione gratuitamente a uomini e donne che prestavano servizio al fronte. Le centocinquantamila copie che cominciarono a circolare tra i giovani in guerra costituiscono uno spartiacque di non poco conto in quanto pongono le basi del modo in cui — una volta terminato il conflitto — si guarderà al passato. Per l’America pulita e conformista degli anni Cinquanta, il Grande Gatsby diverrà un monito intriso di un romanticismo affascinante proprio perché decadente e sregolato, proprio perché manifestazione di un paese dei balocchi per pochi eletti, anticamera di un tempo buio ormai alle spalle.
A farne un mito fu la generazione di chi ebbe vent’anni durante la guerra. Fu Jack Kerouac a sostenere che “Nessuno conoscerà mai davvero l’America perché nessuno conosce Gatsby”. Sono parole affini alla citazione da Fitzgerald preferita da Charles M. Schulz: “In the real dark night of the soul it is always three o’clock in the morning”. Schulz ha più volte giocato con il Grande Gatsby nelle strisce dei Peanuts. Era uno dei suoi libri preferiti. Lo scoprì nel 1945 ma gli furono necessarie quattro letture prima di arrivare a comprenderlo, ha confessato in una lettera. La vera cartina di tornasole è costituita da Salinger — reduce come Schulz del secondo conflitto mondiale — e dal memorabile omaggio tributato nel Giovane Holden: “I was crazy about The Great Gatsby. Old Gatsby. Old sport. That killed me.” Significativa è la battuta immediatamente seguente. Quasi a sancire un legame profondo tra Gatsby e l’esperienza della Guerra, Holden Caulfield dice: “Anyway, I’m sort of glad they’ve got the atomic bomb invented. If there’s ever another war, I’m going to sit right the hell on top of it”. Per la Storia della letteratura Il grande Gatsby è un libro del 1925, ma il suo mito è di un quarto di secolo successivo. Di fatto, entrò nell’immaginario americano come un retaggio della guerra e molto ci sarebbe da dire circa i motivi di identificazione che potevano trovarvi i giovani lettori di allora: con Jay Gatsby spartivano tanto la condizione di reduce quanto la prospettiva più o meno sognata di giorni prosperi e radiosi. Tornando al nocciolo della questione, sono giunto alla conclusione che certi toni del romanzo risultino antiquati non perché quello di Fitzgerald sia effettivamente un inglese fossile, quanto per lo slittamento temporale che è all’origine del suo mito. Consapevole che americanisti assai più attrezzati di un dilettante scapestrato come me si stavano dedicando alla stessa impresa, mi sono dunque concesso l’azzardo di una lingua volutamente démodé, e non per via della “patina che il tempo ha depositato su molte sue pagine” come ha scritto non senza ragione Luca Briasco sul Manifesto — giacché che una patina sia presente è innegabile —, bensì proprio nel tentativo di ricreare lo scarto, l’affascinata distanza che separa la vera età del Jazz dal momento in cui il grande Gatsby è diventato mito. Entro i dovuti limiti ho cercato di farne un romanzo degli anni Cinquanta, rivisitando l’italiano di alcune traduzioni d’epoca e dei film doppiati dell’immediato dopoguerra, una lingua ibrida dove i residui di una sintassi ancora ingessata e formale restituivano in maniera spesso incongrua la novità di temi e linguaggi delle opere originali.
Un primo inevitabile passo è stato l’adozione del voi come allocuzione di cortesia, che sopravviveva nell’editoria e negli schermi cinematografici malgrado la riforma fascista imposta a suo tempo con non poca fatica fosse definitivamente alle spalle. Criterio analogo ho applicato per il lessico, tendendo al desueto in tutte quelle occorrenze che nell’originale marcano un momento fondamentale o definiscono un tratto particolare dei vari personaggi. Già in apertura si incontra una scelta di questo tipo quando traduco: “e fu così che al college mi ritrovai a torto accusato di essere un intrigante perché ero al corrente delle pene nascoste di uomini sregolati e misteriosi”: qui, prendendomi qualche licenza, ho adottato “intrigante” per politician e “uomini sregolati e misteriosi” per wild, unknown men. Simili scelte non sono tuttavia dettate soltanto dalla volontà di creare una sorta di effetto old fashion; dovrebbero servire anche a restituire lo speciale carattere della voce narrante. La riservatezza che Nick Carraway si attribuisce viene espressa da Fitzgerald con una lingua piana, attenta, quasi mai tesa a sorprendere il lettore con vocaboli inaspettati o esotici: wild e unknown sono termini decisamente più comuni e meno romantici di “sregolati” e “misteriosi”. Va però notato che Nick non dice propriamente il vero affermando di non aver mai smesso di tenere a mente il consiglio di suo padre citato nell’incipit. Forse Nick preferisce pensarsi come una persona “incline a sospendere ogni giudizio”, ma giudica eccome, seppure alla sua riservata maniera. Considerato da questa prospettiva, Il grande Gatsbypuò essere anche considerato la storia di come un uomo educato a reprimere la tentazione di giudicare il prossimo si veda costretto dall’evolversi degli eventi a prendere posizione, e dunque pronunciare la sua condanna morale. Nelle pagine finali del romanzo, Nick smette le vesti di spettatore imparziale, diventa protagonista, agisce, rompe la relazione con Jordan, si adopera in tutti i modi perché qualcuno venga al funerale di Gatsby. Emerge allora prepotente una forma di giudizio, in alcuni casi persino di disprezzo che riguarda un po’ tutti fuorché, ovvio, l’amico scomparso: la golfista Jordan, il gangster ebreo Meyer Wolfsheim, il borioso Tom Buchanan e soprattutto la cugina Daisy. Quando dico che un’opzione possibile è quella di percorrere la stessa strada di Fitzgerald in senso opposto intendo per l’appunto questo: laddove il Nick del testo originale ostenta equilibrio e contegno, evitando espressioni appariscenti, il Nick italiano può propendere per un registro più formale, un lessico ricercatamente elusivo, consono a una lingua per natura più incline alla dissimulazione elaborata che allo understament.
A tal riguardo, un termine a mio avviso centrale è careless, che ritorna a più riprese nelle pagine conclusive. “Non potevo perdonarlo — dice Nick in chiusura riferendosi a Tom — né c’era verso che mi ispirasse una qualche simpatia, ma capii che quanto aveva fatto era, dal suo punto di vista, totalmente giustificato. Tutto era accaduto per sbadataggine e confusione. Erano persone sbadate, Tom e Daisy. Rovinavano le cose e le persone e poi si rintanavano nel loro denaro o nella loro sbadataggine o in quel che comunque li teneva uniti, e lasciavano che altri rimediassero al guaio che avevano combinato…” Giunto alla termine del suo racconto, Nick rivela ciò che davvero pensa di Tom e Daisy. Nelle sue parole — segnatamente quando sostiene di capire le ragioni di Tom — sopravvive qualcosa di quella sospensione del giudizio che Nick considera una sorta di dovere morale. Nel tentativo di trovare una via di mezzo, di conciliare questi sentimenti contrastanti, afferma che tutto è accaduto per sbadataggine, perché la sbadataggine, il fare le cose senza preoccuparsi delle conseguenze né tantomeno del prossimo, è il modo in cui le persone come Tom e Daisy, ovvero un certo tipo di ricchi, i nati ricchi cioè, vivono. È il loro istinto, sembra dirci Nick, e pertanto, per quanto riprovevole possa essere il loro comportamento, non fanno che rispondere alla legge della loro natura. “Sbadataggine” può apparire una soluzione impropria, un termine troppo blando e vago per rendere il carelessneess dell’originale e difatti mi è stato da più parti contestato in fase di editing. Naturalmente, sono ben consapevole che “incuranza” o qualcosa di affine sarebbe più corretto. L’aggettivo careless può tuttavia contenere entrambi i significati; può indicare tanto una persona che agisce in maniera svampita, distratta, senza pensarci, quanto l’incuranza vera e propria, l’atteggiamento di chi scientemente se ne frega del prossimo. Privilegiare la seconda possibilità implicherebbe però che Nick sta apertamente giudicando Tom, mentre in realtà dissimula questa sua voglia alludendo all’istintivo distrazione con cui Tom e le persone come lui agiscono, una sorta di menefreghismo inconsapevole. Una prova che sia effettivamente così la troviamo nel finale del terzo capitolo dove Nick rimprovera a Jordan di guidare malissimo. “Dovresti stare più attenta oppure non guidare affatto” le dice in tono grave. Ne scaturisce un amoroso battibecco centrato proprio sull’aggettivo careless. “Suppose you met somebody just as careless as yourself” replica Nick quando Jordan osserva che per fare un incidente bisogna essere in due. In questa occorrenza tradurre careless con “sbadato” o “distratto” è la scelta più naturale e infatti non ho incontrato alcuna obiezione in fase di editing. Ma quel che dice subito dopo Jordan, ovvero che spera di non incontrare mai qualcuno sbadato come lei, prelude proprio alla carelessness con cui Tom e Daisy danno per scontato che siano gli altri a rimediare ai guai, che siano gli altri a tenere un comportamento più responsabile, a essere attenti. Se a questo aggiungiamo il fatto che il rimprovero di Nick parte dal mancato investimento da parte di Jordan di un operaio sul ciglio della strada e che sarà proprio un incidente automobilistico — l’investimento dell’amante di Tom da parte di Daisy — a innescare la tragedia finale, diventa pressoché impossibile negare un legame tra le due situazioni, tra i due modi di usare l’aggettivo careless, tra la sbadataggine e l’incuranza vera e propria. Ecco dunque presentarsi un bivio: è più giusto attenersi al significato che di volta in volta assume il termine nelle varie occorrenze oppure forzare invece nella direzione opposta? Ho scelto la direzione opposta, anche perché più in armonia con lo sforzo di dare una patina alla traduzione, di invecchiarla ad arte per restituire lo sguardo di quei giovani lettori che nel mezzo del secolo scorso si accostarono a questo straordinario romanzo facendolo diventare mito. Non è certo la direzione più giusta e fedele, ma soltanto quella cui un dilettante scapestrato della traduzione difficilmente può resistere.
Pingback: Alieni, Il Grande Gatsby e Caroline di Monaco | Libri: sulla strada e altri viaggi mentali.