Renato Guttuso “Ritratto di Alberto Moravia” (1940)
Capitò dunque che un critico, da molti stimato come grande conoscitore di letteratura, commentando un mio romanzo, parlò una «asciutta referenzialità di scrittura», lasciando esplicitamente intendere che la referenzialità in questione andava ricercata nella lingua del dimenticato Alberto Moravia. Costui lasciava inoltre intendere, con chiarezza certamente non minore, che pure il mio caso (questo sì certamente minore) non rientra nella normalità della nostra letteratura. Pensandoci bene, Moravia è un romanziere atipico nel panorama italiano e proprio per via della sua scrittura asciutta. Sospetto che talvolta ci si sia dimenticati di lui non per reale disinteresse, bensì per pura distrazione. Ci si dimentica di lui semplicemente perché il suo modo di scrivere non si fa sentire. E non si fa sentire perché la cultura del nostro paese ha la spiccata attitudine a penalizzare le lingue asciutte. Non sta certamente a me condannare l’inclinazione italiana per le scritture bagnate e le pagine che sanno di saliva; mi sembra però innegabile che la lingua parlata condizioni pesantemente la nostra letteratura. Mi rendo perfettamente conto che una simile inclinazione non viene dal nulla, che si tratta di qualcosa profondamente radicato, come si dice, nel nostro carattere nazionale. Resta però il fatto che questa stessa inclinazione ha portato molto scrittori verso uno scriteriato indugiare nell’effetto parlato, a un uso spesso immotivato e improprio di espressioni dialettali, alla esasperata ripetizione di certi intercalare — quasi che un intercalare fosse una specie di punteggiatura alternativa — e, cosa ancor più discutibile, a una preferenza spiccata per la narrazione in prima persona. Cosa c’è di male in tutto ciò? In apparenza nulla. Forse nemmeno nella sostanza vi è alcunché di sbagliato. Tuttavia vi domando: non vi suona per caso sgradevole la sfacciataggine di usare la mia personale e, probabilmente, poco rilevante posizione quale termine di paragone per un giudizio su uno scrittore ormai consegnato alla storia della letteratura? Se così è, e spero che lo sia, ne avete tutte le ragioni. Esistono forme letterarie — e il romanzo è una di queste — in cui un uso improprio della prima persona dovrebbe essere censurato. Fra le principali ragioni per cui la nostra letteratura non ha un grande tradizione di romanzi romanzeschi c’è proprio l’uso leggero e invadente dell’Io come voce narrante; un uso che è sua volta favorito da una concezione orale, per così dire, della letteratura. Melville era convinto che «per scrivere un grande libro bisogna scegliere un grande tema.»
Renato Guttuso “Ritratto di Alberto Moravia” (1982)
Ora, con tutto il rispetto per la vita di tutti, è statisticamente alquanto improbabile che l’esistenza di un Io qualunque possa contenere i presupposti di un grande tema. Ciò nonostante nella contemporanea letteratura italiana è molto frequente il caso di romanzi dove il grande tema è l’esperienza insignificante di uno sfigato qualunque, quasi sempre lo scrittore stesso. Alcuni di questi libri, che hanno come principale, se non unico, registro l’effetto parlato, commuovono, divertono e talvolta non sono privi di una loro autentica poesia. Ma nel loro trasformarsi in poesia questi libri mancano di diventare veri romanzi. Esistono ovviamente delle eccezioni. La più clamorosa di tutte è per certi versi il libro fondante della nostra letteratura. Mi viene da pensare alla Divina Commedia, che non è un romanzo soltanto per una piccola questione di secoli. Oppure potrei pensare a un abbacinante romanzo di qualche anno fa, Rondini sul Filo, dove si replica una lingua fra le più «parlate» della letteratura moderna: il celinese. Ma questo mi porterebbe troppo lontano. Torno dunque a Moravia e alla sua lingua asciutta. Chi può negare che Moravia abbia scritto veri romanzi? Si può forse obiettare sul modo effettivamente neutro di scrivere o sulle trame troppo premeditate, ma rimane il fatto che egli sia probabilmente il più romanziere fra gli scrittori italiani del XX secolo. Non nego che il mio uso del termine romanziere sia volutamente generico e arbitrariamente rigido. Rimedio dunque in parte proponendo un esempio concreto. «Avevo la faccia tonda, gli occhi neri, grandi e fissi, i capelli neri che mi crescevano fin quasi sugli occhi, stretti in due trecce fitte fitte simili a corde. Avevo la bocca rossa come il corallo e quando ridevo mostravo due file di denti bianchi, regolari.» Un lacerto della prima pagina della Ciociara, le righe in cui la protagonista, nonché voce narrante del romanzo, si presenta al lettore. Questa figlia di contadini che «lascia il paese per venire a Roma» aveva certamente una lingua, molto diversa dal composto italiano che Moravia le fa parlare; tanto più che ai «bei tempi» in cui si svolgono le vicende narrate, l’italiano non era certamente così composto e diffuso com’è oggi. Perché dunque Moravia sceglie di scrivere in una lingua che appartiene più a suoi lettori che non alla protagonista del romanzo? Perché sono i lettori che devono leggere, verrebbe da dire. Ma possiamo forse ridurre a una questione di convenzioni e convenienze letterarie? E dal momento che non era certamente nelle intenzioni di Moravia privare di realismo o autenticità la storia della Ciociara, è possibile azzardare che egli ritenesse superfluo, ridondante o addirittura innaturale far parlare la ciociara come realmente parlava. Con estremo garbo Moravia inventa una lingua dal suono ingenuo, una lingua dove i superlativi si ottengono raddoppiando l’aggettivo («due trecce fitte fitte») e dove la semplicità di immagini quali la «bocca rossa come il corallo» è puramente letteraria perché appartiene molto di più al repertorio dei romanzi d’appendice che non al parlato. A questo punto è pero lecito domandarsi: Non sarebbe stato molto più semplice e verosimile optare per una narrazione neutrale in terza persona? Perché complicarsi la vita con un ibrido che non è «veramente» la voce dello scrittore né tantomeno quella di una probabile ciociara? Il fatto è che Moravia ragionava come un vero romanziere, e per un vero romanziere il primo senso da sollecitare è la vista, il più astratto e filosofico dei sensi. In altri termini egli voleva farci vedere chi era la ciociara e qual era la sua storia. Le prime righe del romanzo sono scritte per fini essenzialmente visivi. Vediamo come la donna si miri nello specchio dei bei tempi. Vediamo «la faccia tonda, gli occhi neri, grandi e fissi, i capelli neri che mi crescevano fin quasi sugli occhi». La vediamo come lei si vedeva, o pensava di vedersi, e quando arriviamo alle «due trecce fitte fitte» la vediamo anche parlare. Si tratta ovviamente di artifici; tanto il fitte fitte quanto il facile espediente di evocare una psicologia femminile con il vanitoso ricordo della bellezza perduta, sono essenzialmente inviti al lettore a farsi un’immagine della ciociara. In buona sostanza Moravia sapeva una cosa. Sapeva che le pagine di un romanzo non sono scritte per le orecchie ma per gli occhi; sapeva che è con gli occhi che i romanzieri devono evocare modi di parlare; sapeva che la lingua di un romanzo non deve far da specchio alla realtà ma da sponda; sapeva infine che la frigida natura della vista richiede distanza. In altri termini, sapeva che, per essere viste, le parole devono asciugarsi la lingua. Sapeva che devono essere tradotte nella lingua del visibile, la lingua del romanzo.