Una norma molto diffusa presso le case editrici prevede che la pagina in cui inizia il nuovo capitolo di un romanzo non sia mai numerata. Solitamente non ci facciamo caso, ma quando ci si trova per le mani un libro come Port Tropique di Barry Gifford, dove i capitoli (ammesso che così vogliamo ostinarci a chiamarli) spesso si limitano a poche righe, può capitare che i numeri si materializzino nell’angolo esterno in alto con andamento sporadico e che il susseguirsi delle pagine sembri cadenzato a capriccio: 12, 16, 18, 24, 27 e così via, in una sequenza priva di schema. Non è questione da poco, e nemmeno pretestuosa. Chiunque, finanche il lettore più sofisticato, è abituato a misurare i libri in numeri di pagine. Diciamo di aver letto un romanzo di tot pagine o di essere arrivati a pagina X, e ciò facendo accettiamo che il tempo della lettura venga scandito da una serie numerica diversa da quella con cui ci orientiamo nel tempo della vita, ma a essa comunque parallela. Nel caso specifico di Gifford, poi, la faccenda non coinvolge soltanto una convenzione apparentemente marginale della carta stampata, ma corrisponde anche a un modo preciso e insolito di intendere la struttura di una storia. Proprio per via della sua spiccata inclinazione alla brevità, a una laconicità che constata senza mai spiegare nulla, David Lynch ha definito Gifford scrittore «parsimonioso», ed è probabilmente questa parsimonia che ha fatto delle sue storie il modello ideale per il cineasta principe delle trame non lineari. Nel parsimonioso linguaggio di Gifford un istante fissato dallo sguardo conta più della logica delle parole e, ciò detto, sarebbe facile aggiungere che egli sia anche lo scrittore del disordine e dello smarrimento; in fondo il più famoso dei suoi personaggi si chiama Perdita Durango e il film da lui sceneggiato per Lynch si intitola Strade Perdute. Ma non è esattamente così che stanno le cose.
Le storie di Gifford non sono mai complicate come possono sembrare; si potrebbe anzi dire che sono così semplici da non essere nemmeno storie nel vero senso del termine. Se Port Tropique è un romanzo breve composto di capitoli brevissimi, la trama che lo sorregge ha la fissità fulminante di un haiku: un uomo non rimedia all’errore che ha commesso e attende di morire. Certo, nel libro ci sono molti altri elementi, ma sono elementi che non aggiungono nulla al senso della vicenda, e se da un lato non la complicano più del dovuto, dall’altro non servono a comprenderne meglio il senso. Sono elementi che fanno semplicemente da sfondo, ingredienti per un ambientazione noir: la tipica repubblica delle banane occupata dal solito esercito di rivoluzionari, loschi figuri che se vanno in giro con il panama d’ordinanza, stupende ragazzine indie che quando non passeggiano per le strade si concedono senza troppi problemi nei bordelli, acquazzoni tropicali, sole, caldo, umidità e una quantità inenarrabile di birre, cubalibre e alcolici di vario genere. In questo scenario Franz Hall commette lo sbaglio di ritrovarsi con cinquecentomila dollari in banconote rubate sotto il letto e rimane in attesa che i proprietari del denaro gli piantino una pallottola in fronte senza stare ad ascoltare cosa egli abbia da dire. Il problema non è come si sia ficcato in un simile pasticcio né se riuscirà a venirne fuori, perché è chiaro fin dall’inizio che il destino di Franz è quello di una persona giunta al capolinea della vita. Il problema è come egli si preparerà a morire. Ed è proprio in questo che Gifford si rivela scrittore unico e ipnotico, perché Franz semplicemente non si prepara, continua a fare ciò che ha sempre fatto, vale a dire restare a guardare; uno spettatore che assiste all’esistenza propria e quella altrui come fosse un film, tant’è che morirà dopo essere uscito da un cinema dove proiettano Il mucchio selevaggio.
Alla suspense del racconto noir, Gifford sostituisce la sospensione allucinata di eventi che procedono per inerzia. Lo stereotipo della vita che ti scorre davanti nell’istante fatale si trasforma quindi in una morte al rallentatore: un affastellamento di immagini piene di spazi bianchi, bagliori di ricordi che non giungono mai a una vera e propria ricostruzione delle vicende, quasi che il passato fosse davvero un libro con le pagine numerate a caso. Ci viene così proposta una serie di scatti assurdi e marginali della memoria, come quello di un uomo che passa le sue domeniche seduto su una sedia a sparare ai corvi perché li considera scarafaggi con le ali. Port Tropique è una grande periferia del ricordo in cui gli eventi nodali — la morte di un figlio, una moglie che ti abbandona — vengono intravisti solo in lontananza. Analogamente, l’identità di Franz Hall sfuma in continue dissolvenze incrociate: una volta è uno scrittore alle prese con una biografia di Benjamin Franklin, un’altra passa per un agente della CIA. Ma alla resa dei conti, egli è semplicemente un uomo che da un giorno all’altro scopre di avere quarant’anni e nessun legame col futuro e che, per questa ragione, comincia a «erodere irrevocabilmente la sua percezione del passato». Pubblicato a pochi mesi di distanza da Landscape with Traveller (1980), romanzo in cui la vita di un uomo viene ritratta attraverso continui salti nel tempo, Port Tropique anticipa l’umanità scombinata e vagabonda che Barry Gifford narrerà nel decennio seguente in Cuore selvaggio, Gente di notte e Wyoming.
I germi del suo modo di strutturare le storie per frammenti devono però essere cercati più indietro, in quel collage di aneddoti e dichiarazioni che è la biografia di Kerouac, scritta insieme al giornalista Larry Lee e uscita per la prima volta negli Stati Uniti nel 1978. Jack’s Book è il vero manifesto poetico di Gifford. Egli si è infatti sempre considerato uno storyteller, non tanto nel senso letterario di narratore quanto in quello della persona che si limita a riportare ciò che ha sentito mettendo da parte il riscontro con la realtà dei fatti. «Mio Dio è proprio come Rashomon: tutti mentono e ne esce fuori la verità», furono le parole di Ginsberg davanti alle bozze della biografia «orale» di Kerouac. Gifford non poteva sperare in un commento più appropriato: aveva trascorso la sua infanzia nel mondo del crimine organizzato e le storie piene di fandonie dei poco di buono lo avevano sempre affascinato. Era il loro speciale modo di parlare a incantarlo e che ci fosse del vero in quei racconti poco gli importava. Gli bastava la semplice idea che qualcuno, senza un motivo apparente, aprisse bocca e cominciasse a raccontare una storia. In un’altra sorta di biografia (Il padre fantasma) scopriamo che Gifford è il figlio di un uomo che non gli parlò finché non compì cinque anni. Forse fu proprio il ritrovarsi bambino in un mondo di adulti che non lo degnavano di una parola — l’essere costretto ad ascoltare a debita distanza — a instillare in lui la passione per la narrazione orale. Comunque sia, non c’è alcun dubbio che la sua magica laconicità ha la stessa natura del detto cinese citato dal protagonista di Port Tropique: «I fatti del mondo e le nuvole in cielo, perché metterli in discussione?»