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Onetti

Per ragioni inerenti allo stato di spettatori passivi, di esclusi dal luogo di un’azione narrata, i critici e talvolta finanche i lettori tendono all’interpretazione simbolica. È il loro modo di restituire la vita alla vita, un modo per dire che in un romanzo non possono esserci né veri luoghi né vere azioni e forse nemmeno  simulacri più o meno verosimili, bensì soltanto la rappresentazione di modelli e teorie, di supposte leggi di natura, di corsi e ricorsi in base ai quali gli accadimenti finiscono per rassomigliarsi. Per motivazioni opposte e inevitabilmente speculari, gli scrittori disconoscono queste interpretazioni simboliche, respingendole quasi fossero offese intollerabili. È dunque facile immagine il disappunto di Juan Carlos Onetti nel leggere la recensione che David Gallagher scrisse nel 1968 per il New York Times, segnatamente dove si afferma che Il cantiere, allora appena apparso in traduzione inglese è un «simbolo vivido e infausto della decadenza uruguaiana». In verità, il disappunto, oltre che immaginabile, è anche documentato. Malgrado la sua idiosincrasia per  le dichiarazioni, il diretto interessato replicò. Negò di avere concepito un romanzo dal simbolismo fumoso. Se simboli ve ne sono, precisò, essi attengono la decadenza di un uomo, di un individuo ben definito, e non di un’intera nazione. In un diverso frangente, Onetti fu ancor più specifico. Disse di vedere in quest’uomo un artista fracasado ovverosia un fallito, il che può sembrare almeno in parte contraddittorio, giacché poco o nulla di artistico sembrerebbe ravvisarsi nel protagonista del romanzo, che è tra i più memorabili dell’America latina del secondo dopoguerra e, per parere pressoché unanime, il migliore o quantomeno il più significativo dell’autore. Di che genere di personaggio stiamo parlando? Larsen è un uomo che ritorna o, meglio ancora, che tenta di ritornare nella città che lo espulse cinque anni addietro poiché persona non grata. Il suo torbido passato di tenutario di un bordello resta in sostanza innominato; verrà raccontato soltanto in seguito, in un successivo romanzo, Raccattacadaveri, dato alle stampe tre anni dopo Il cantiere, che risale al 1961. Ciò non deve sorprendere, essendo l’impermanenza della memoria un tratto tipico del mondo onettiano. Il passato, non importa quanto recente, grava sui destini delle persone alla maniera di un cielo coperto ma, come le nubi, non ha mai una forma precisa, può ricordare tutto o niente; inequivocabile è soltanto il colore, il suo grigio ostile.

Tanto più dubbio è il passato, tanto più certo è il futuro: l’ombra lunga del primo si protende sul secondo fino a oscurarlo, rendendo vana ogni speranza di sfuggirgli e velleitario qualunque proposito di riscatto. E siccome ritorna proprio per liberarsi del suo passato, di fatto Larsen vuole l’impossibile. Rifarsi una verginità, una vita, un nome. Vuole diventare altro da ciò che è stato, dalla persona che gli altri, seppure confusamente, ricordano. Il suo piano sarebbe di una semplicità infallibile se soltanto ci fosse la possibilità di tradurlo in pratica. Si fa assumere in qualità di direttore generale di un cantiere navale e corteggia la figlia dell’anziano proprietario, tale Petrus. Il matrimonio dovrebbe renderlo erede dell’impresa e, di conseguenza, un membro importante e rispettato della comunità che lo ha scacciato. C’è soltanto un piccolo problema, anzi due piccoli problemi. Il cantiere è in bancarotta e la figlia del padrone, Angélica Ines, è una demente. Basterebbe questo per convincersi dell’assurdità: quale azienda in salute verrebbe mai affidata a un individuo dai precedenti equivoci, un paria? La conferma definitiva, inconfutabile, che la logica del buon senso non abita più qui, e forse non vi ha mai abitato, giunge nelle pagine conclusive quando Larsen entra in un carcere portando con un sé una pistola. Nessuno si preoccupa di perquisirlo né a lui salta in mente che avrebbero potuto, anzi dovuto, perquisirlo. Nessuno ci pensa: questa la banale spiegazione fornita. Non meno inverosimile è che Larsen non si avveda dell’insensatezza in cui si è cacciato. E in effetti non è propriamente così. In più di una circostanza si ha l’impressione, sebbene non la certezza, che egli sia almeno in parte consapevole del fallimento che lo attende. Se persiste con apparente ottusità nel suo intendimento, se non si sottrae a una farsa a tal punto improbabile che persino il fingere e il mentire a se stessi parrebbero percorsi interdetti, è perché così deve essere, perché così è stato deciso. In almeno un paio di occorrenze il cantiere in rovina viene definito una religione e ciò implica una cosa soltanto: che una sua risorgenza, un suo ritorno ad antichi quanto incerti splendori non è faccenda di questo mondo, è una possibilità che troverà conferma soltanto in un altrove, in un tempo fuori dal tempo, sempre che un simile tempo esista.

JUANCARLOSONETTI

Scorgere un legame tra la desolazione del cantiere e il declino in cui versava l’Uruguay quando Onetti scrisse il romanzo non è fuori luogo. Fuori luogo è pensare che questo legame sia d’ordine simbolico ovvero che una sia la rappresentazione metaforica dell’altro, mentre è più vero il contrario. Furono il declino di una nazione e il miraggio di un nuovo sviluppo, in quegli anni offerto all’America latina intera, a porgere su piatto d’argento una forma, il modello per un’allegoria tutta interna al romanzo. E qui può venire in soccorso Benjamin, il suo ragionare sul dramma barocco tedesco. «Il male» scrive Benjamin, «esiste soltanto in quanto allegoria, perché altro non è che allegoria, e significa qualcosa di diverso da quel che è; significa precisamente la non esistenza di quel che è presente». Similmente, il cantiere in disfacimento, questo luogo decrepito che pare non essere mai stato davvero attivo se non nelle carte impolverate che Larsen legge intentamente come fossero un testo sacro, testimonianza di un’età dell’oro smarrita in un tempo immemore; questa rovina di sogni resi ridicoli dalla loro troppo evidente irrealizzabilità non rappresenta il cantiere in disfacimento di una nazione; è il disfacimento in sé. Il cantiere è cadente e senza prospettive solo perché Larsen è cadente e senza prospettive, che è poi la ragione per cui egli vi resta pervicacemente avvinghiato. Il cantiere è Larsen; il disfacimento dell’azienda e la vecchiaia dell’uomo, la sua condanna già scritta, sono una cosa sola. Il cantiere non può dunque parlare dell’Uruguay. Riprendendo il ragionamento di Benjamin, il suo argomento è la non esistenza di quel che è presente e quel che ne consegue; l’impossibilità del cantiere di essere un cantiere e il non poter fare a meno di questa impossibilità o, per restare su un piano allegorico, la mancanza di senso della vita e il bisogno di viverla comunque, il bisogno di credere che ne abbia, anche se una vera risposta giungerà eventualmente soltanto quando non vi sarà più vita, nel regno oltremondano della morte. La domanda di partenza è però ancora senza risposta: cosa fa di Larsen un artista? Il ritorno, semplicemente. Nel poema omerico, Odisseo, il ritornante peripatetico, non fa che raccontare la propria storia. Anche Larsen ci prova ma a ruoli invertiti. Non è lui è «nessuno» ma il suo uditorio, la demente Angélica Ines. Il raccontare perde così ogni scopo fuorché quello di ingannare il tempo. L’uomo mente su tutto, diventando un cantiere, un racconto mancato, un fallimento.

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One thought on “IL CANTIERE

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