Si ignora come lo disse. Se dopo essersi tolto di bocca il sigaro o seguitando a fumarlo, ciancicando le parole assieme al tabacco. Certo è che lo disse. «I Balcani producono più storia di quanta possano digerirne». Altrettanto certo è che queste parole pronunciate da Winston Churchill sono vere. Tragicamente vere e scritte col sangue, dalla prima all’ultima lettera; il tipo d’inchiostro col quale da sempre, secondo il generale Ratko Mladić, si tracciano le frontiere. E se non proprio da sempre, perlomeno da quel lontano giorno di giugno — correva l’anno 1389 — in cui il principe Lazar, poi canonizzato dalla Chiesa ortodossa, diede la vita per difendere il «popolo celeste» combattendo contro i turchi a Kosovo Polje, la Piana dei merli. Da allora in avanti, solo per un breve periodo si godé di una tregua: nei quattro decenni in cui Tito fu al potere, quando in quelle tormentose terre venne raccontata, o piuttosto inculcata, una storia di fratellanza e condivisione. Si raccontò che serbi, croati, sloveni, macedoni, bosniaci e montenegrini erano uniti da uno stesso destino, una stessa bandiera, quella di Yugoslavia. Morto il maresciallo, morta pure la bandiera. E se altrove la fine del comunismo non produsse rumore più forte delle picconate necessarie ad abbattere il muro di Berlino, nell’ormai ex Yugoslavia ci si svegliò da un brutto sogno soltanto per ritrovarsi in un vecchio incubo. Coloro che avrebbero dovuto pensarsi fratelli adesso non sembravano nemmeno parenti alla lontana o, se lo erano, lo erano da serpenti, alla maniera delle famiglie in cui vivere sotto un unico tetto può diventare l’origine di ogni male, la ragione per scannarsi a vicenda.
Il capitolo più cruento dei conflitti che si susseguirono ebbe luogo a Srebrenica nel luglio 1995. Più di ottomila musulmani bosniaci vennero massacrati dalle truppe comandate dal generale di cui sopra, quello convinto che la geografia fosse perlopiù questione di cadaveri, tombe e fosse comuni. Mladić aveva una figlia. Pure un figlio aveva, Darko. La femmina, Ana, era però la sua prediletta. La chiamava «figlio», il che era un po’ come dirle: ti amo a tal punto da elevarti a maschio. La figlia-figlio non era da meno. Adorava il padre, lo idolatrava persino. Vedeva in lui un individuo straordinario e pertanto gli professava un amore assoluto. Ma come disse Oscar Wilde, quegli stessi genitori che da piccoli amiamo, da grandi li giudichiamo e raramente li perdoniamo. Ana giudicò suo padre e lo punì nel più inappellabile dei modi, sparandosi con la sua pistola preferita, che lei sapeva pulire e oliare meglio di un soldato. Si uccise l’anno prima del genocidio di Srebrenica. Era da poco tornata depressa da un viaggio a Mosca. Lontana da casa, ebbe forse modo di accedere a informazioni non censurate circa il proprio paese, scoprendo così chi era davvero il generale Mladić. Esistono ovviamente diverse ipotesi sulle ragioni che spinsero Ana a quel gesto. Partendo da un ritaglio di giornale, la spagnola Clara Usón ha raccontato la sua: il dilemma dagli esiti tragici di una sorta di Amleto al femminile costretto a guardare in faccia la verità. Ne è scaturito un romanzo epico, di intensità profonda e carico di dolente umanità. Un’umanità che è anch’essa figlia. La figlia delle speranze e delle delusioni di cui è fatta la vita.