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È facile ingannarsi, facile giungere alla conclusione che Jorge Luis Borges non parlasse alla lettera nel dichiararsi orgoglioso dei libri letti anziché di quelli che scrisse. Facile dimenticarsi che il fine autenticamente ultimo dello scrivere coincide, come in un circolo armoniosamente chiuso, con la sua origine: la lettura. E tale è la forza dell’inganno, tale l’oblio, che corsi di scrittura cosiddetta creativa fioriscono ovunque. Eppure basterebbe una frequentazione anche saltuaria delle biblioteche per chiarire l’equivoco: non esistono regole precostituite né ricette infallibili per la costruzione di un personaggio o di una trama, come pure per l’uso della lingua. Basterebbe fare della lettura una vocazione per non ingannarsi. Non che il leggere sia più facile o esente da rischi; riserva anzi insidie maggiori proprio perché si tende a vederlo come un’attività passiva, per la quale non è richiesto un particolare mestiere né tanto meno una qualche forma di creatività. Ai rischi insiti nella misconosciuta arte della lettura è dedicato il prologo (ma potremmo chiamarlo anche racconto d’apertura) del recente libro di John Freeman, Come leggere uno scrittore. Nella scena letteraria, quello di Freeman è nome noto, legato a filo doppio alla rivista «Granta», di cui sarà direttore sino al prossimo luglio, quando diverranno effettive le sue dimissioni, rassegnate per via della draconiana riduzione dei costi decisi dalla proprietà. Non ancora quarantenne, Freeman ha conosciuto e intervistato autori in quantità. Non c’è autore di una qualche rilevanza col quale non sia entrato in contatto. Da anni, inoltre, collabora con testate quali il «New York Times Book Review», il Los An- geles Times, il Guardian e il Wall Street Journal. Nondimeno si considera un lettore tardivo.

La sua iniziazione avvenne a Brooklyn nella casa di un uomo silenzioso e appassionato di libri, che gli mise in mano una raccolta di racconti di John Cheever e Corri, coniglio di John Updike. Mollò Cheever prima ancora di terminarlo, trovando i suoi racconti «piagnucolosi e complicati», e si immerse dunque in Updike che invece divorò in pochi giorni, identificandosi nella vita «splendidamente» soffocante di una provincia in cui egli stesso aveva vissuto. L’identificazione crebbe, divenne mania. Freeman divorò un romanzo di Updike dopo l’altro, collezionandone fanaticamente le prime edizioni. Il guaio era che questa sua fissazione gli impediva di scrivere, sebbene fosse un suo sogno: «Passavo invece il tempo a leggere – Updike, naturalmente – sempre più consapevole del fatto che lui, alla mia età, aveva già pubblicato un volume di poesia e un romanzo breve, ma anche della magnifica tristezza della sua opera, fat ta di famiglie spezzate e distrutte, di desideri carnali mai capaci di alleviare la strisciante claustrofobia dei personaggi». La resa dei conti arriva tempo però dopo, quando Freeman ha un divorzio alle spalle e la sua vita sembra un sogno prematuramente infranto. È a questo punto che gli si presenta l’opportunità di intervistare il suo scrittore preferito. Tutto fila liscio finché la conversazione devia sul privato, con Updike che dà consigli al giovane Freeman: «una situazione talmente surreale che oggi nemmeno ricordo cosa dis se di preciso». Non fu così per lo scrittore, che in seguito non si mostrò altrettanto disponibile, facendo capire per bocca del suo agente che non aveva gradito che un giornalista si abbandonasse a sfoghi personali. Freeman comprese allora una cosa fondamentale: «quando un lettore si rivolge a uno scrittore, o a un suo libro, per ottenere le soluzioni ai propri problemi, finisce per violare la privacy di entrambi. È questo il rischio che si nasconde dietro ogni intervista, dietro ogni profilo biografico: quello di incatenare troppo la vita di un autore alle sue opere, o di intestardirsi nella convinzione che un romanzo possa sostituire il nostro essere destinati a commettere errori e a pagarne le conseguenze».

Questa verità; questo limite che separa lettore e scrittore nonché l’atto del leggere da quello dello scrivere; questo confine che non andrebbe mai superato è un po’ il segno che marca i molti incontri con grandi romanzieri raccontati da Freeman. Giacché in effetti, più che di interviste, di racconti si tratta. O meglio ancora: di ritratti. Non per niente ognuno di essi è preceduto da un ritratto vero e proprio, opera dell’illustrato- re W.H. Chong. Tranne qualche rara eccezione, la convenzionale formula «domanda e risposta» viene sistematicamente elusa. Delle parole dell’intervistato sopravvivono soltanto alcuni virgolettati, frasi chiave usate per punteggiare un tessuto più articolato, dove osservazioni critiche e informazioni d’ordine più giornalistico si alternano a quanto Freeman va cogliendo con gli occhi, invece che con le orecchie o il registratore. Istantanee che immortalano lo scrittore in un momento rivelatore, come quando David Foster Wallace, in un ristorante che presumiamo giapponese, passa dai bastoncini alla forchetta e quindi direttamente alla mani, infilandosi in bocca pezzi di pesce crudo come fossero patatine. Nel caso di Ishiguro la situazione si ribalta, perché è Freeman a cospargere di briciole il lato del tavolo dello scrittore, in un caffè di Piccadilly. Istruendolo su come di spalmare la crema sopra la marmellata, Ishiguro propone un paragone che dice molto più sulle proprie fantasie che sul modo di destreggiarsi con gli scones: «Immagini di spargere del sangue sulla neve fresca». Toni Morrison, Haruki Murakami, Siri Hustvedt e Paul Auster in coppia, Philip Roth, Don DeLillo, Norman Mailer, Ian McEwan, Salman Rushdie: sono soltanto una parte della impressionante collezione di ritratti assortita negli anni da Freeman, la cui voce è sempre invisibile, mai invadente, sempre umilmente tesa a far brillare non la propria intelligenza bensì quella dell’autore intervistato. Così quando Geoff Dyer dice una frase tutto sommato irrilevante, se non furbetta – «C’è sempre il timore che io stia semplicemente facendo il lazzarone» – la sua poetica si manifesta con illuminante naturalezza proprio perché, con sapiente semplicità, Freeman ci ha tratteggiato un personaggio, quello dello scrittore flâneur diviso tra impegno e indolenza, talento e dilettantismo.

È evidente che l’ex direttore di «Granta» ha fatto tesoro dell’errore commesso incontrando il suo scrittore preferito. Curiosamente – ma le coincidenze non capitano mai soltanto per caso – ritroviamo Updike proprio nel bel mezzo del volume. Oggetto della chiacchierata è un romanzo del 2002, Seek My Face (purtroppo mai tradotto in italiano), che racconta in sostanza l’intervista a un’anziana pittrice da parte una giovane storica dell’arte. S’intende che sebbene mai esplicitamente evocato, il ricordo del primo e sfortunato incontro tra Freeman e lo scrittore aleggia nella conversazione, e appena Updike finisce per alludervi è con simpatia e gratitudine che pensiamo al suo intervistatore, come pure a quel confine dal quale, in quanto lettori, è bene tenersi lontani: «Se uno scrittore avesse delle opinioni da dare in pasto al pubblico sarebbe un predicatore o un politico. Un’opera d’arte, ma anche un’opera letteraria, è il tentativo di dare forma a un oggetto, con tutti i misteri che gli oggetti racchiudono. Lo puoi guardare da un lato, poi sotto una luce diversa lo vedi cambiare forma. Queste intromissioni nella privacy degli artisti possono avere il pericoloso esito di estromettere l’arte dall’oggetto».

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