Un’antichissima poesia attribuita ad Ariwara no Yukihira – vissuto tra l’818 e l’893 – recita più o meno così: «Se ci fosse, per caso, / qualcuno che chiede di me, / rispondi che, alla baia di Suma, / bagnato di lacrime come l’alga salmastra, / vivo sommerso nella desolazione». In questi celebri versi, ripresi anche da Murasaki nel Genji monogatari, riposano i germi di un concetto di fondamentale importanza per la cultura giapponese. In un primo tempo espressione della nuda e cruda mestizia che si prova ritrovandosi per scelta o per costrizione esclusi dal mondo, il wabi – il vivere sommerso nella desolazione – si è trasformato nei secoli diventando una sorta di beatitudine, la strada maestra per giungere alla quiete spirituale del nulla più profondo, la chiave per conseguire la consapevolezza che ogni attaccamento ai valori terreni non è altro se non pura illusione, e dunque fonte di sofferenza. Di questo sentimento sono impregnati sia la cerimonia del tè che la pratica del romitaggio intesa quale viatico per la poesia. Tanto è radicato il wabi che viene spontaneo domandarsi se e in quale misura un fenomeno come lo hikikomori – l’isolamento estremo in cui si rinchiudono molti giovani, rifiutando di uscire dalla propria minuscola abitazione per anni e talvolta persino decenni – possa essere considerato un odierno aggiornamento della disposizione d’animo con cui il poeta Basho scrisse, nel 1681: «Vivo sommerso nella desolazione, non trovo nessuno che chieda di me», parole a loro volta chiaramente debitrici dei versi di Ariwara no Yukihira.
Un interrogativo di questo tenore sembra avere ispirato Wabi Sabi Cyber, una fortunata serie di convegni promossa dal Dipartimento di Studi Asiatici presso «L’Orientale» di Napoli. Il titolo traccia un percorso preciso: parte dal wabi e da un concetto estetico analogo, il sabi, per arrivare al cyber. Ovvero: indaga come la tradizione nipponica non manchi di perpetuare se stessa pur diffrangendosi in un caleidoscopio di costanti contaminazioni, dove l’ipertecnologia rappresenta la dimensione più rilevante, sebbene non l’unica. Gli esiti della ricerca sono ora convogliati nel volume Culture del Giappone contemporaneo, a cura di Matteo Casari, che raccoglie gli interventi di numerosi studiosi tra cui Giorgio Amitrano, responsabile di avere ispirato, insieme al curatore, l’«impostazione plurale e sincronica» data al dibattito, nell’evidente intento di favorire un confronto serrato tra il mondo sotterraneo delle culture giovanili – manga, anime, videogiochi – e le più nobili terre emerse rappresentate da cinema, arti visive, architettura e letteratura. Proprio Amitrano propone un’attenta disamina delle trasposizioni manga della Divina Commedia nipponica, il Genji monogatari. Lo straordinario capolavoro di Murasaki Shikibu è da sempre oggetto di manipolazioni d’ogni sorta. Quasi presagendo che il testo fosse destinato a un’incontrollabile mutazione, la stessa autrice lamentava nei suoi diari l’esistenza due diverse copie del manoscritto, una delle quali avrebbe potuto a suo avviso danneggiarne la reputazione. Chissà cosa penserebbe oggi la dama di corte Murasaki potendo sfogliare la trasposizione decisamente esplicita realizzata di Egawa Tatsuya. La cura che Egawa presta nel disegnare abiti, ambienti e oggetti d’epoca «appare sprecata – osserva Amitrano – per quella che è soprattutto una versione pornografica dell’opera», poiché l’adattamento postumo di un classico dovrebbe comunque tendere allo scopo di avvicinare il lettore «all’apprezzamento dell’originale, arricchito di una nuova prospettiva». Vale tuttavia la pena dedicare attenzione a queste rivisitazioni pop, in quanto l’anima del Giappone contemporaneo – che il recente terremoto e tutte le tragedie che ne sono derivate dovrebbero avere avvicinato all’interesse anche di chi non ne aveva mai frequentato la cultura – risiede per l’appunto nell’oscillazione tra una decisa e reiterata affermazione della propria identità, e dunque della tradizione, e una ridefinizione febbrile di quest’ultima. E qui si presenta un primo e interessante paradosso: ibrida e mutante per natura, la cultura del Sol Levante è all’apparenza quanto di più postmoderno si possa trovare, eppure, come nota Gianluca Coci in Culture del Giappone contemporaneo, in modo simile all’Italia ma per ragioni diverse, il Giappone si è trovato «confuso e impreparato al momento dell’impatto con il postmodernismo». Lo ha scoperto soltanto in un secondo momento, a partire dalla metà degli anni Settanta, ma ancor più nel decennio successivo, quando giovani autori quali Murakami Haruki, Murakami Ryu e Takahashi Gan’ichiro si adeguarono al passo dei tempi. Un motivo centrale del postmoderno è notoriamente l’abbattimento degli steccati tra cultura alta e cultura di massa. Qualcosa di analogo è avvenuto anche in Giappone, seppure con modalità particolari: «Il postmodernismo giapponese possiede una qualità diversa rispetto alla sua controparte occidentale» scrive il critico letterario Karatani Kojin. «Esso è fondato su un procedimento radicale come in Occidente, ma non per questo include quel senso di “opposizione” tanto atavico nel mondo occidentale». Le ragioni per cui il modello dell’antitesi non ha attecchito nell’Oriente più estremo sono molteplici e antichissime. Temi come il travestitismo, l’androginia o l’incesto tornano con grande frequenza nella narrativa giapponese e quasi mai vengono trattati con l’inquietudine morbosa o colpevole più tipica del nostro sguardo.
«La sanzione dell’atto sessuale in sé e dell’ambiguità sessuale in particolare – nota Laura Testaverde, analizzando quanto e in quale modo la letteratura contemporanea nipponica affondi le radici nel proprio passato – sono il prodotto di un’evoluzione interna al pensiero cristiano e non trovano corrispondenza in molte culture estranee al suo influsso», prima fra tutte quella giapponese dove invece tutto ciò che è ambiguo, confuso, mescolato, anziché essere oggetto di censura, genera da sempre «una forte dose di ammirazione e attrazione». Questo modo di pensare e vivere la sessualità, e quindi la differenza in genere, comporta fatalmente un diverso tipo di immaginario. Quando noi occidentali spingiamo lo sguardo verso un al di là, il panorama che si profila è spesso un oltretomba oppure un luogo antitetico alla realtà. In altre parole, i nostri mondi ulteriori o paralleli sono quasi sempre mondi di opposizione: i vivi al di qua, i morti al di là, l’esserci e il non esserci, il vero e il falso. In Giappone troviamo invece quella che Rebecca Copeland definisce «letteratura del mukogawa», dove mukogawa è un mondo oscuro dalle ascendenze mitiche, una sorta di universo materno che ci si ritrova a esplorare come per incanto: «Il protagonista supera una barriera di montagne, sabbia o mare. Si arrampica, o si apre un varco verso il mondo dell’altro lato, spesso in un viaggio minacciato dal pericolo. Una volta nel mondo del mukogawa, il protagonista incontra una bella donna, “lo spirito del posto”, che serve da guida, conducendo l’uomo sempre più a fondo nella propria psiche», in un’ideale forma di ricongiungimento col grembo che ha abbandonato nascendo. Tra i molti testi riconducibili a questo modello ci sono Il guanciale d’erba di Natsume Soseki, Un’esperienza personale di Oe Kenzaburo, La casa delle belle addormentate di Kawabata Yasunari e il più recente L’uccello che girava le viti del mondo di Murakami Haruki. Pur ricordando per molti aspetti l’oltretomba descritto in tanta letteratura occidentale, il mukogawa scaturisce dal bisogno tipicamente giapponese di immergersi in un luogo appartato, a contatto con la natura, affinché l’ego contaminato dalla cultura – e in particolare dalla modernizzazione portata dall’Occidente – possa ritrovare se stesso.
Ecco come Tsuruta Kin’ya definisce il mukogawa: «A rischio di semplificare eccessivamente, si può dire che i protagonisti dei romanzi occidentali conquistano la loro identità attraverso lotte contro l’ambiente circostante. Un buon numero di protagonisti di romanzi giapponesi mostrano (invece) un’inclinazione alla regressione, o una tendenza, anche solo temporanea, a sprofondare il proprio ego nell’ambiente. In questo senso, il mukogawa rappresenta una breve moratoria in un tiepida sorgente termale, lontano dalla costante pressione della modernizzazione. È un luogo umido e segreto nel quale fantasticare, dove ritornare, dissolversi e, soprattutto, recuperare le forze, lontano dal processo di sopravvivenza e crescita». Umori simili trovano un loro corrispettivo artistico nel Biopop, tendenza che riconosce il proprio capostipite in Kusama Yayoi – figura di primo piano della seconda ondata di avanguardie del Novecento, quella degli anni Sessanta – e, passando per un’altra artista molto nota sulla scena internazionale, Mori Mariko, approda agli esiti più recenti di Nawa Kohei, Kito Kengo, Odani Motokiko e Paramodel (pseudonimo assunto dalla coppia formata da Hayashi Yasuhiko e Nakano Yusuke). Il Biopop, spiega nel suo contributo al libro Fabriano Fabri, «condensa su di sé due dimensioni apparentemente opposte: da un lato la celebrazione di una vita autentica, colta ai suoi stadi primari; dall’altro l’inserimento di un intenso coefficiente di artefazione». Cellule e sistemi arteriosi, linfe e liquami, il fluido e molliccio universo nascosto all’interno degli organismi viventi si trasforma in uno spazio solido, talvolta finanche praticabile fisicamente, fatto di materiali sintetici, pixel, diagrammi.
Il confine col mondo dei giocattoli e l’immaginario dei cartoni animati è per forza di cose sfumato se non del tutto inesistente. Brevissimo è inoltre il passo che conduce al mostruoso, altro motivo centrale. La proliferazione di creature ibride e mutanti è un tratto così rilevante nella cultura giapponese da essere diventato oggetto di una disciplina accademica, lo yokaigaku, una sorta di scienza il cui padre riconosciuto è il filosofo Inoue Enryo, per questo soprannominato Dottor Mostro. Che siano i folletti descritti da Akutagawa in Kappa o il dinosauro radioattivo Godzilla o l’esercito sterminato dei Pokemon, i mostri svolgono un ruolo importantissimo: quello di mediatori simbolici di identità e al contempo di alterità. Agli inizi del secolo, in occasione di un viaggio a Londra, Natsume Soseki appuntò nel diario la seguente considerazione: «Mi sembrò di vedere un uomo basso e particolarmente brutto che mi veniva incontro lungo la strada; solo per rendermi conto che si trattava di me steso, riflesso nello specchio. È solo venendo in questo luogo che ho realizzato che noi siamo veramente gialli». Il mostro come specchio dunque, specchio della creatura nata dall’accoppiamento di due opposti, sintesi di uno strenuo attaccamento alla tradizione e di un vertiginoso tuffo nell’ipermodernizzazione. Oriente e Occidente. Passato e Futuro. Soprattutto futuro, perché come sosteneva Jacques Derrida, «un futuro che non fosse mostruoso non sarebbe un futuro».