Cosa può indurre un uomo nel fiore degli anni, non ancora trentenne, nel mezzo di un’esistenza ricca di impegni, a scrivere un’autobiografia? Forse il presentimento di non avere tanto da vivere? Quando diede alle stampe la sua versione dei fatti, nel 1964, il giovanotto d’origine ebraica Brian Epstein era atteso da una morte prematura. Se ne sarebbe andato nel giro di un paio d’anni per un’overdose di alcol e farmaci, un tragico evento preceduto da due tentativi di suicidio e abusi di svariate sostanze. Completavano il quadro una passione al limite della dipendenza per il gioco d’azzardo e un’omosessualità male vissuta e tenuta nascosta. Di tutto ciò non vi è traccia nelle sue memorie. Si ammette, questo sì, un’infanzia e una giovinezza non propriamente felici. Come pure si racconta delle tante volte in cui Brian fu cacciato da scuola, nonché delle sue difficoltà nei rapporti umani, di alcune false partenze, di ambizioni abortite. Ma come nelle migliori favole i problematici inizi conoscono una svolta inaspettata un pomeriggio d’autunno, quando un diciottenne in jeans e giacca di pelle nera entra in un negozio di Liverpool chiedendo un disco dei Beatles prodotto in Germania. Dietro il banco c’è proprio lui, Brian, nelle vesti di direttore del negozio. Il gruppo desiderato gli è completamente ignoto. E dire che i Beaetles vivono nella sua stessa città. Uno dei membri, un giovane di nome Paul McCartney, è persino stato nel negozio per acquistare un pianoforte.
Anche gli altri ci sono capitati. Ragazzi dall’aspetto selvaggio, bisognosi di un buon taglio di capelli ma tutto sommato piacevoli. Nel ripensarci, Brian ricorda di essere rimasto infastidito da una cosa soltanto: dal fatto che oziassero sui banchi ascoltando dischi e chiacchierando con le ragazze. Un fastidio comprensibile, il suo. Brian si è ormai lasciato alle spalle i fumosi sogni di gioventù. Si è buttato anima e corpo nell’azienda di famiglia. I genitori hanno aperto da poco un nuovo negozio di mobili con annesso reparto di dischi e Brian, fermamente determinato a fare di sé il migliore venditore della città, si adopera affinché le richieste dei clienti vengano sempre soddisfatte. Decide pertanto di indagare su questo gruppo di Liverpool che registra ad Amburgo. Le indagini lo condurranno al Cavern, un club ricavato da un magazzino in disuso e sul cui palco si esibiscono i Beatles. Brian ne resta impressionato: «Fumavano mentre suonavano, mangiavano, e facevano finta di capirsi l’un l’altro. Voltavano le spalle al pubblico, urlavano verso di loro e ridevano a battute che nessun poteva sentire». Quella stessa sera, al termine del concerto, senza una precisa ragione, Brian invita nel suo negozio l’eccentrico gruppo di ragazzi. «Per una semplice chiacchierata» dice. Una chiacchierata semplice e però destinata a conseguenze epocali. Brian diverrà l’impresario dei Beatles, rivestendo un ruolo di non poco conto nell’affermazione di un fenomeno che non conosce precedenti. Di lì a poco tempo la Beatlemania planerà sul pianeta intero causando frequenti svenimenti e malori tra le fan in estasi. La versione che Brian dà di questo pezzo di Storia è certo edulcorata e non tanto per la bella favola che racconta, quanto per le sofferenze che dissimula. Nondimeno è la versione di Brian, di un quinto Beatle, forse il vero quinto Beatle. Con buona pace di George Martin, s’intende.