Nel rifiutare il manoscritto di Giorni perduti, Simon & Schuster fornì una spiegazione sensata, forse persino incontestabile. Correva l’anno 1943, una guerra mondiale seminava morte e altre disgrazie. Chi mai avrebbe potuto interessarsi ai tormenti di un alcolista? «Di questi tempi, la gente se ne frega dei problemi individuali» fu detto a Charles Jackson. Il romanzo uscì con un altro editore e divenne un successo da mezzo milione di copie, tra cui anche quella acquistata da un certo Billy Wilder alla stazione di Chicago, prima di salire su un treno per Los Angeles. Dire che il regista ne rimase folgorato sarebbe un eufemismo. «Non soltanto sapevo che ne avrei ricavato un buon film» raccontò in seguito Wilder. «Sapevo anche che l’attore che avesse interpretato l’ubriacone avrebbe vinto l’Oscar». E doveva saperla molto lunga, giacché, di statuette, il film ne prese ben quattro: miglior film, migliore regia, migliore sceneggiatura non originale e, naturalmente, migliore attore protagonista, Ray Milland. A onor del vero, Wilder ebbe l’accortezza di annacquare i lati più tenebrosi del romanzo. La non risolta e inconfessata omosessualità del protagonista, poi, che di fatto costituisce la principale ragione della spirale alcolica, fu obliterata del tutto. Nondimeno ne scaturì la pellicola più espressionista e tetra di Wilder. Del resto, non avrebbe potuto essere altrimenti.
Giorni perduti era e resta un romanzo d’abisso, una storia con più senso dell’orrore di qualunque storia horror, come qualcuno ebbe a dire. Pare, ma è aneddoto di dubbia attendibilità, che Herman Mankiewicz, sceneggiatore di Quarto Potere, abbia tentato il suicidio dopo averlo letto. Certo è invece che Malcolm Lowry ammise che Giorni perduti lo inquietò al punto da rendergli difficoltoso seguitare a scrivere Sotto il vulcano, unanimemente considerato un apice della letteratura alcolica, se non la Divina Commedia dei bevitori senza speranza. Cosa c’è di tanto spaventoso nel libro di Jackson? Forse il fatto che non parli di nulla fuorché dell’ossessione assoluta del bere. La trama è ridotta all’osso, per non dire inesistente. Il romanzo racconta cinque giorni matti e sciaguratissimi di un giovane scrittore perdutamente innamorato della bottiglia. In questo breve lasso di tempo, il nostro antieroe, eludendo il controllo di chi gli vuol bene, fa quel che può per procurarsi qualche spicciolo, ruba, chiede prestiti, porta al banco dei pegni la macchina da scrivere, cade dalle scale, finisce in una specie di ospedale psichiatrico dal quale trova il modo di fuggire. Questi pochi e miseri eventi rimangono comunque un’eco lontana, un fondale distorto contro il quale si agitano i fantasmi del giovane. Ogni cosa si consuma infatti nella sua testa, a cominciare dallo straordinario racconto che, da ubriaco, immagina di scrivere e che naturalmente svanisce nel nulla con l’evaporare dei fumi dell’alcol. Come prevede il rito, Jackson negò che Giorni perduti fosse un libro autobiografico. Lo scrisse in un periodo di sobrietà e considerò anche di concepirne un seguito con un lieto fine, che sancisse il definitivo addio al vecchio vizio. Ma non ci furono né un seguito né un lieto fine. Jackson morì diversi anni dopo per un’overdose di barbiturici al Chelsea Hotel, leggendario ritrovo newyorchese di artisti, scrittori ed eccentrici più o meno sbandati con alle spalle numerose stagioni all’inferno.
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