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Non c’è bisogno di sottolineare che, al momento attuale, il prestigio del romanzo si trova a un livello estremamente basso e frasi del tipo «non leggo romanzi», che una dozzina di anni fa venivano proferite in tono di sfida, adesso sono sempre pronunciate con consapevole orgoglio. Non sono parole mie e nemmeno tanto recenti. Le ha scritte George Orwell nel 1936 e se le ripropongo così, senza chiuderle tra virgolette come sarebbe d’obbligo fare con una citazione, è perché potrebbero rimanere anonime e senza tempo, perché è praticamente da sempre, vale a dire da quando la letteratura è anche romanzo, che gli scrittori devono constatare che diffidenza e indifferenza nei confronti delle storie inventate sono sentimenti diffusi. Ammetto che comprendo bene questi sentimenti, li comprendo così bene da averli provati anch’io. C’è stato infatti un tempo in cui, come tutti, ero giovane in modo sfrontato e benché fantasticassi su tutto e fossi l’antitesi della concretezza, mai e poi mai ritenevo possibile che la mia strada potesse incrociarsi con quella della letteratura. Avevo progetti di vita che abbracciavano l’intero spettro delle esperienze umanamente possibili e impossibili, oscillavo tra il rammarico di non poter diventare un astronauta e la tentazione di fare il vagabondo, prendevo in considerazione di tutto, dalla meschina e beata tranquillità del posto fisso alle classiche risoluzioni finali, tipo arruolarmi nella legione straniera. Ma non contemplavano affatto la scrittura. L’idea che una persona potesse desiderare o solo pensare di trascorrere la maggior parte del proprio tempo chiuso in una stanza per riempire fogli con le storie di individui mai esistiti mi sembrava inammissibile, una rinuncia alla vita, a quella che io credevo essere la vera vita. Per come la vedevo allora, i romanzi erano la quintessenza dell’inutilità. A cosa serve un romanzo? mi chiedevo. A niente, se non a farti evadere dalla realtà. Ma io non volevo evadere. Volevo essere nel centro vivo e pulsante delle cose e rifiutavo di consolarmi con l’immaginazione di qualcun altro. Poi sono passati gli anni, mi sono fatto meno giovane, nel centro vivo e pulsante delle cose non sono mai stato e sono finito a fare proprio quello che con tanta fermezza avevo escluso. Dovesse mai capitarmi di incontrare il ragazzo che ero, mi sentirei senza dubbio in grande imbarazzo perché ai suoi occhi apparirei di certo un fallito.

Tutto ciò non avrebbe molto senso raccontarlo, non fosse per due ragioni. La prima è che il nostro mondo occidentale pullula di persone che all’escapismo della narrativa, anche di grande qualità, preferisce saggi e manuali nella convinzione che il piacere della lettura debba abbinarsi all’apprendimento di informazioni utili. La seconda ragione è che ancora vivo in me il ricordo di come abbia cominciato a distaccarmi da questa moltitudine che pensa di usare un libro con lo stesso spirito pratico con cui si usa un martello. Non potrò mai dimenticare, cioè, il libro che mi fece scoprire quanto sia indispensabile la scellerata vanità dei romanzi, non potrò mai dimenticare L’amore al tempo del colera di Gabriel García Márquez. Non saprei dire con precisione come arrivai a questo libro. Rammento solo che, di punto in bianco, provai il bisogno di leggere un romanzo. Probabilmente fu perché all’epoca stavo vivendo un amore che non aveva futuro e, malgrado quell’esperienza non si fosse ancora cristallizzata, presagivo che con il passare degli anni la mia tristezza avrebbe finito per assumere un suo odore unico e inconfondibile. Magari non sarebbe stato lo stesso odore di cui parla Márquez, ma mi risultò fatale rispecchiarmi nell’inevitabilità che è all’origine del suo romanzo: l’inevitabilità con cui l’odore delle mandorle amare risveglia il destino degli amori contrastati. Posta in questi termini, tutto sembrerebbe doversi ricondurre a quel potere consolatorio che è forse l’unica utilità universalmente accettata della narrativa. Non so, può anche essere che sia davvero andata così, che fossi alla ricerca di un balsamo per la mia condizione di innamorato infelice. Ricordo però che la storia di Florentino Ariza e del suo ostinato e non ricambiato amore per Fermina Daza non servì a lenire nessuna delle mie sofferenze. Quanto a consolazione, le lettura del romanzo di Márquez fu vana, e lo fu perché mi è sempre risultato difficile di provare – come certa saggezza popolare vorrebbe – un mezzo gaudio per un male comune. Ciò che ottenni da L’amore al tempo del colera fu di natura affatto e diversa e inaspettata. Fu una specie di satori o illuminazione: d’incanto compresi cosa era possibile fare con un romanzo. Impiegare il proprio tempo a scrivere storie non mi sembro più tanto inutile. Mi rendo conto che usare l’espressione «d’incanto» parlando di Márquez è fin troppo facile, ma come potrei definire un’illuminazione in piena regola, vale a dire un’illuminazione così vaga da impedirmi di spiegare in termini chiari cosa esattamente compresi?

D’altro canto, pensandoci bene, l’essenza del romanzo è proprio quella di offrire illuminazioni vaghe. A differenza di tutti i modi in cui è possibile servirsi del linguaggio, i romanzi non brillano mai di luce propria ed esclusiva. I testi filosofici brillano di verità, quelli di storia brillano di passato, le poesie brillano di assoluto, i reportage brillano di realtà. I romanzi invece, se e quando brillano, lo fanno a tratti e di una luce riflessa, una luce che è tutto e niente, che una volta è quella della verità filosofica e un’altra è quella dell’assoluto poetico. È così che funziona perché il racconto impone un uso pratico e prosaico del linguaggio, bisogna descrivere, incastrare eventi, individuare dettagli, spendere un mucchio di energie per definire cose tutt’altro che elevate, e quando finalmente giunge il momento di una frase o una parola illuminanti, può essere che ciò avvenga dopo pagine e pagine di parole e frasi opache. La luce di cui brillano a tratti i romanzi è qualcosa di estraneo al placido scorrere della prosa, è simile alla luce degli abbaglianti di un’auto che improvvisamente ci si para davanti nella corsia opposta e allo stesso modo in cui quei fari ci costringono per un attimo a chiudere gli occhi, così lo sfarfallio di una certa frase ci obbliga per un attimo a sospendere la lettura. Per assurdo, sul piano della mera funzionalità narrativa, il romanzo perfetto dovrebbe o essere scritto solo con parole opache o far brillare il prosaico di luce propria. È evidente però che entrambe le strade sono di fatto impraticabili e da ciò si evince non soltanto che il romanzo perfetto è una chimera ma che le forme narrative sono sempre qualcosa di spurio, incompleto e relativo, è il loro limite, ma anche ciò che le rende così umane e indispensabili. Non accettare questo limite è il maggiore torto che si possa fare all’essere umano, significa denigrarci per il nostro bisogno di storie o, quantomeno, equivocare. Uno di questi equivoci è, per esempio, parlare di «realismo magico» a proposito di Márquez. Anzi, per certi versi, questa infelice definizione è peggio di un equivoco, perché ha finito con rendere inattuale la sua opera agli occhi dei lettori più cool, quelli, per intenderci, che ritengono di gran lunga più interessanti autori come Philip K. Dick o Don DeLillo. Sarà forse perché è uno scrittore dell’America Latina, vale a dire un uomo che per luogo comune deve struggersi, languire, grondare passioni e nostalgie esagerate, ma questa macchia di realista magico Márquez l’ha dovuta sopportare anche nel momento più drammatico della sua vita, quando, alla fine del 1999, dopo che la notizia del suo tumore al sistema linfatico aveva fatto il giro del mondo, qualcuno diffuse in rete una lettera con la quale lo scrittore diceva melodrammaticamente addio alla vita e alla letteratura. Si trattava di un falso, ma la cosa che avvilì Márquez non fu tanto il falso in sé quanto che molta, troppa gente lo avesse creduto capace di scrivere una cosa così ignobile.

Oggi tutti sanno che egli ha reagito alla malattia in modo diametralmente opposto: scrivendo una monumentale biografia e progettando una trilogia di nuovi romanzi. Ma chi conosce davvero Márquez, chi ha davvero letto i suoi libri sa anche che non poteva essere altrimenti. Odia troppo la morte, quest’uomo, la odia a tal punto che tutta la sua letteratura potrebbe essere letta come un atto di ribellione alla morte. Considerato il tempo che ha dedicato al giornalismo, l’unico vero realismo del Márquez romanziere è quello di scrivere dei modi in cui la morte cerca di sottomettere l’uomo: guerre, miseria, malattie, vecchiaia. Quanto alla magia, Márquez è troppo laico, troppo umanista, per non considerarla un mero strumento del potere, uno dei tanti mezzi con cui il potere cerca di mascherare all’uomo i suoi disegni di morte. È per questo che i suoi romanzi iniziano quasi sempre al cospetto della morte. All’inizio de L’amore al tempo colera, Márquez ne racconta addirittura due, di morti: Jeremiah de Saint-Amour che si uccide per non diventare vecchio e il dottor Urbino che, troppo vecchio per arrampicarsi sugli alberi, cade nel tentativo di riacchiappare il suo pappagallo. Ma similmente alla guerra che «è più su» perché «nelle città non si uccide a colpi d’arma da fuoco ma con i decreti», la morte di cui parla Márquez non arriva quando si muore. È lì da sempre, un’afflizione tirannica e quotidiana che cerca di umiliare la vita. Basta questo stupendo periodo per capire: «Sul far della sera, nel momento oppressivo del passaggio dal giorno alla notte, si alzava dalle paludi una tempesta di zanzare carnivore, e una tenera esalazione di merda umana, calda e triste, rimestava nel fondo dell’anima la certezza della morte». Ma se la vita merita di essere vissuta, se c’è una dignità nell’essere umani, se c’è un senso nel raccontare storie, è perché di fronte al potere e alla morte si ha sempre la possibilità di ribellarsi, di ricordare a se stessi e agli altri chi si è stati, di testimoniare che, malgrado la sottomissione e la consunzione, si è stati liberi e si è stati vivi. Vivi para contarla.

 

 

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