Esistono due modi sostanziali di giudicare i sorprendenti incastri che vanno sotto il nome di coincidenze. Il primo è intriso di disincantato raziocinio, l’altro di speranzoso fatalismo. Per chi si affida alla ragione, le coincidenze non sono che un’illusione generata dal bisogno tipicamente umano di scovare significati ovunque, anche là dove non ve ne sono. Secondo la scuola di pensiero opposta, invece, nulla capita per caso; le coincidenze non sarebbero quindi chimere bensì segnali, messaggi inviati da una realtà superiore che soltanto a tratti si manifesta alla nostra coscienza, una realtà che ci vuole parte di un grande disegno. Come molti, non capendo o non volendo capire da che parte schierarmi, ho scelto l’amletica soluzione del pendolo. Prendo le coincidenze per come vengono, per quel che possono dare, perché — immaginarie o reali che siano — le coincidenze regalano sempre qualcosa. L’ultima si è manifestata conversando con un amico, un architetto argentino che non vedevo da tempo. Abbiamo parlato di molte cose e in maniera erratica, come sempre capita con gli argentini, finché, un po’ inaspettatamente, ci siamo soffermati sul Giappone. È un posto speciale, unico, ha osservato il mio amico. In Giappone, ha detto, tutto ciò che non è bello viene guardato con sospetto. Parole solo in apparenza scontate che mi hanno dato da pensare, rivelandosi una preziosa chiave di accesso al nuovo romanzo di Murakami Haruki, L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio, nella cui lettura mi sono immerso poco dopo avere salutato il mio amico. Va da sé che la bruttezza riscuote magri consensi un po’ ovunque, non soltanto in Giappone. E un po’ ovunque è spesso associata al male. Il non essere bello e la bruttezza non sono tuttavia facce di una stessa medaglia, come pure c’è una diffidenza di non poco conto tra il sospetto e l’abiura.
Tazaki Tsukuru è per l’appunto un non-bello. Nonostante i tratti del suo volto siano armoniosi e forse persino avvenenti, alla resa dei conti, nel guardarsi allo specchio, si trova irrimediabilmente noioso e la sola cosa di cui può compiacersi è l’assenza di difetti pronunciati. Quando guarda dentro di sé, nel fondo dell’anima, il bilancio appare ancor più sconfortante. Non è una persona cattiva, ma la mancanza di una vera personalità, il non appassionarsi a nessuna forma d’arte, il non avere hobby o abilità particolari o caratteristiche di cui andare fiero, lo fanno sentire poco più che un guscio vuoto. «Come recipiente, può darsi abbia una forma soddisfacente — pensa di sé Tsukuru — ma dentro non ho nulla che si possa definire un contenuto». Per dirla con un solo aggettivo, è un uomo incolore. Ma lo è poi davvero? Chi lo assicura che non preferisca vedersi scialbo per semplificare le cose? In effetti, che non abbia passioni è falso. Ascolta musica, gli piace nuotare, ma soprattutto è mosso da una forte attrazione per le stazioni ferroviarie, attrazione che in gioventù lo ha indotto a lasciare la nativa Nagoya per trasferirsi a Tokyo, dove si è laureato in ingegneria. Ora è un trentaseienne e, sebbene già tema di imboccare il mesto viale della mezza età, ha coronato il suo sogno: costruire stazioni. L’ha però pagato a caro prezzo. Quando era al liceo, Tsukuru aveva quattro amici, due ragazze e due ragazzi, insieme ai quali formava un cerchio perfetto, una microcomunità armoniosa fondata sul tacito accordo che tra loro non dovessero mai esserci complicazioni d’ordine amoroso o sessuale. Per una bizzarra coincidenza, nei nomi di ognuno era contenuto un colore, tranne che in quello di Tsukuru, che conteneva invece il verbo costruire.
Da principio motivo di scherzo, questa diversità si è caricata di significati opprimenti a partire dal giorno in cui i quattro amici, senza alcuna spiegazione, hanno estromesso dal cerchio Tsukuru. Uno shock inaspettato quanto tremendo. Per un lungo periodo nella sua mente c’è stato spazio soltanto per pensieri di morte e, malgrado col tempo sia riuscito a risollevarsi, Tsukuru non ha mai saputo liberarsi veramente del sospetto che in lui ci sia qualcosa di scialbo e incolore, qualcosa che spinge le persone a dileguarsi all’improvviso senza neppure una parola d’addio. Ma ecco che, dopo tanti anni e per amore di una donna, l’uomo senza colore decide di risolvere il mistero, di scoprire per quale motivo gli amici dell’adolescenza lo hanno allontanato con risolutezza impietosa. Senza indulgere alle derive surreali di tanti suoi libri, Murakami, ha fatto così ritorno agli umori nostalgici di Norwegian Wood, redigendo la cronaca di un’indagine sentimentale con lo stile che gli è proprio, in costante e fascinoso bilico tra serenità e inquietudine, impartendoci una toccante lezione sul nostro bisogno insopprimibile di attribuire comunque un senso alle cose, che capitino per caso o per destino, per crudeltà o per amore.