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All’indomani della scom­parsa di John Updike, avve­nuta il 27 gen­naio 2009, Julian Bar­nes decise di ren­der­gli omag­gio rileg­gendo qual­cosa della sua opera. Si poneva tut­ta­via l’imbarazzo della scelta, vista la straor­di­na­ria pro­li­fi­cità dell’autore: più di ses­santa libri tra romanzi, rac­conti, poe­sie e saggi di sva­riata natura. Optò per la saga di Coni­glio, che era da poco con­fluita «in un volume di 1516 pagine dalla coper­tina rigida e col titolo cumu­la­tivo di Rab­bit Angstrom». Di que­sta espe­rienza di rilet­tura, Bar­nes ha trac­ciato un bilan­cio com­parso prima sulle pagine di un quo­ti­diano inglese, The Guar­dian, e poi ripreso in forma più estesa in Through the Win­dow, una rac­colta di testi sparsi apparsa nel 2012. La sua con­clu­sione è un enco­mio lapi­da­rio: la tetra­lo­gia di Coni­glio «è ancora il mio miglior romanzo ame­ri­cano del dopo­guerra». La seconda metà del secolo scorso non ha certo scar­seg­giato di opere signi­fi­ca­tive ed è dun­que spon­ta­neo doman­darsi quanto sia giu­sti­fi­cato il giu­di­zio di Bar­nes. Pos­si­bile che nes­suno dei grandi scrit­tori ame­ri­cani degli ultimi decen­nio abbia al suo attivo un romanzo di pari livello, se non superiore? Che Updike pos­se­desse un talento fuori dell’ordinario è indi­scusso. Lo hanno aper­ta­mente rico­no­sciuto anche molti dei suoi col­le­ghi, tra cui Phi­lip Roth, il quale, a pro­po­sito di Sei ricco, Coni­glio (ora ripro­po­sto da Einaudi Stile Libero pro­prio con il sag­gio di Julian Bar­nes a fare da intro­du­zione e nella pre­ge­vole tra­du­zione di Ste­fa­nia Ber­tola), dovette ammet­tere di sen­tirsi infe­riore quanto a cono­scenza delle cose d’America: «Il suo eroe è un rap­pre­sen­tante della Toyota. Updike sa nei minimi det­ta­gli cosa signi­fi­chi essere un rap­pre­sen­tante della Toyota. Io, invece, vivo in cam­pa­gna e non cono­sco nem­meno i nomi degli alberi. Ho deciso di non scri­vere più». Sono parole che pur nella loro evi­dente e spu­do­rata fal­sità, tra­di­scono un’ammirazione sin­cera. A ben guar­dare, sem­brano dire anche altro, sem­brano dare ragione al prin­ci­pio di Heming­way per cui più cose si cono­scono, più si è scrit­tori.

Se Phi­lip Roth si con­cede un’affermazione tanto opi­na­bile è per­ché la nozione di Grande Romanzo che grava sulla nar­ra­tiva ame­ri­cana è una chi­mera a pre­scin­dere, una stella polare che può essere disgiunta dalla qua­lità let­te­ra­ria dell’opera in senso stretto. Per porla in altri ter­mini, non è neces­sa­rio che il Grande Romanzo sia anche un buon libro, o che un grande scrit­tore sia anche un bravo scrittore. Un’idea simile, in ter­mini forse più pre­cisi ed effi­caci, pare soste­nerla anche Lor­rie Moore quando dice che Updike è «pro­ba­bil­mente il nostro più grande scrit­tore sprov­vi­sto di un grande romanzo». Lo stesso Bar­nes, prima di tri­bu­tare a Updike gli onori let­te­rari che pure merita, sot­to­li­nea che «in futuro, uno sto­rico che vorrà cogliere la con­si­stenza, l’odore e il signi­fi­cato di un’esistenza medio-bassa in un’America ordi­na­ria tra gli anni cin­quanta e i novanta, avrà biso­gno di poco altro in aggiunta alla tetra­lo­gia del Coniglio». Un rico­no­sci­mento del tutto in sin­to­nia con quello di Roth, giac­ché in entrambi si dà risalto alle cose pre­senti nel rac­conto, quasi che la tetra­lo­gia sia più impor­tante in quanto reperto sto­rico o socio­lo­gico che in quanto let­te­ra­tura. Del resto, la saga non è omo­ge­nea sul piano sti­li­stico; certe remi­ni­scenze joy­ciane di Corri, Coni­glio, pub­bli­cato nel 1959, quando Updike si sen­tiva ancora in bilico tra poe­sia e nar­ra­tiva, sono molto lon­tane dal piglio tra­gi­co­mico di Sei ricco, Coni­glio, che vide le stampe ven­tuno anni dopo. Va inol­tre tenuto pre­sente che sol­tanto nel corso del tempo – e comun­que non prima del terzo atto della tetra­lo­gia – apparve evi­dente l’effettiva por­tata della saga. È pro­ba­bile che que­sta con­sa­pe­vo­lezza fu tar­diva non sol­tanto per i let­tori, ma anche per lo stesso autore. Il per­so­nag­gio di Harry Ang­strom, che prende forma in Corri, Coni­glio, segue di appena due anni Sulla strada, del quale può essere con­si­de­rato una rea­zione, ovvero «una dimo­stra­zione rea­li­stica di cosa accade a un gio­vane padre di fami­glia ame­ri­cano quando prende la strada», per dirla con le parole dell’autore. A Harry è del tutto estra­nea l’aura roman­tica se non eroica del viag­gia­tore soli­ta­rio e senza metà, e forse anche la reto­rica della vastità degli spazi aperti, dell’America ster­mi­nata e sel­vag­gia. Harry è sem­pli­ce­mente un medio­cre, forse ancor meno di un medio­cre; comun­que non una per­sona che si mette in viag­gio, bensì sol­tanto un imma­turo che scappa come un coni­glio. Una sera, stanco della moglie alco­liz­zata e del figlio ancora pic­colo, molla la fami­glia e, dalla Penn­syl­va­nia, si dirige verso sud; ma dopo aver pas­sato la notte al volante, senza una vero motivo, rinun­cia ai sogni d’avventura e torna a casa, alla vita di tutti i giorni, un’esistenza squal­lida che a Coni­glio pare la nega­zione dell’effimera glo­ria cono­sciuta da ado­le­scente, quando gio­cava nella squa­dra di basket del liceo. D’altronde è la stessa moglie a rim­pro­ve­rar­gli di segui­tare a vivere in quel pas­sato, di non cre­scere. Coni­glio è un tipico esem­plare di Peter Pan del mondo reale; invec­chia nel corpo e nel tipo di esi­stenza che con­duce, ma den­tro di sé resta il ragazzo del liceo, e il tasso di pate­ti­smo che ciò fatal­mente com­porta fa di lui una per­fetta deni­gra­zione del Sogno ame­ri­cano. Se il mito di Kerouac è figlio di un idea­li­smo estremo e incon­di­zio­nato, Coni­glio è l’epitome della disil­lu­sione senza appello. Prima ancora che un anti­e­roe, è un anti­so­gna­tore. È quel che sarebbe potuto diven­tare Jay Gatsby se non fosse stato reso «grande» da una pre­ma­tura morte, se il suo sogno avesse avuto la pos­si­bi­lità di misu­rarsi con il lento ma ine­so­ra­bile svi­li­mento di una medio­cre mezza età. Pro­prio per que­sto la tetra­lo­gia migliora col tempo, per­ché più il tempo passa, più la medio­crità e le disil­lu­sioni di Coni­glio non cono­scono pos­si­bi­lità di riscatto, sem­mai l’hanno conosciuta.

Pub­bli­cate nell’arco di quat­tro decenni, le quat­tro tappe della tetra­lo­gia offrono uno spec­chio distorto e però fede­lis­simo della sto­ria recente degli Stati Uniti: un uomo che, nel suo disfa­ci­mento, incarna tutto ciò che il Sogno Ame­ri­cano non dovrebbe essere. Un padre tre­mendo, un pes­simo marito, un man­drillo inde­fesso, un ses­si­sta, un fal­lito, un obeso, un igno­rante; non poco signi­fi­cato ha il fatto che l’ultimo atto della saga, Riposa, Coni­glio, veda il nostro anti­so­gna­tore costan­te­mente immerso nelle pagine di un libro sulla sto­ria ame­ri­cana che non finirà mai di leg­gere. Que­sta tappa finale e il romanzo che lo pre­cede, Sei ricco, Coni­glio, costi­tui­scono la parte migliore della tetra­lo­gia non­ché il ver­tice dell’intera opera dell’autore. Coni­glio è «un biglietto per vedere l’America che mi cir­conda» disse una volta Updike, aggiun­gendo che quel che vede­vano gli occhi del suo per­so­nag­gio era più inte­res­sante e meri­te­vole di nar­ra­zione di quel che vedeva coi pro­pri occhi, «seb­bene la dif­fe­renza fosse spesso minima». Può darsi che, come sostiene Lor­rie Moore, Updike sia sprov­vi­sto di un grande romanzo. Ha però creato un grande per­so­nag­gio, una fine­stra attra­verso la quale guar­dare il Sogno Ame­ri­cano per come è in realtà, e un grande per­so­nag­gio è forse un risul­tato più illu­mi­nante e dure­vole di un grande romanzo. Può pure darsi che, come sosten­gono alcuni detrat­tori, Updike sia tutto medium e niente mes­sag­gio, che usi il suo straor­di­na­rio talento per non par­lare di nulla. È tut­ta­via una cri­tica impre­cisa. Almeno nella tetra­lo­gia, la pre­sunta man­canza di un mes­sag­gio non è fine a se stessa, bensì volta a uno scopo pre­ciso: osser­vare la medio­crità del nulla, il che non è affatto impresa di poco conto e ne fa una let­tura comun­que imprescindibile.

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