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Con­sa­pe­vole di avere il destino com­pro­messo da una malat­tia dege­ne­ra­tiva del fegato, Roberto Bolaño inve­stì le sue ultime ener­gie in un «mostro» che lo «divo­rava», 2666, il romanzo fiume uscito postumo un anno dopo la scom­parsa. Puttane assassine, sua seconda rac­colta di rac­conti e ultimo libro pub­bli­cato in vita, non può dun­que essere letto in senso testa­men­ta­rio: resta tut­ta­via un’opera impor­tante, non fosse che per gli evi­denti legami con il primo volume di rac­conti, Chia­mate tele­fo­ni­che, del quale può essere con­si­de­rato un ideale proseguimento. Entrambi i libri rac­col­gono un numero pres­so­ché iden­tico di testi, quat­tor­dici in uno, tre­dici nell’altro. Entrambi tro­vano spesso nella figura di Arturo Belano, evi­dente alter ego dell’autore, un pro­ta­go­ni­sta sem­pre segnato da una qual­che forma di mar­gi­na­lità rispetto agli eventi nar­rati, sia quando il suo ruolo pare limi­tato a quello dell’osservatore o, in più di un caso, dell’ascoltatore di una sto­ria altrui, sia quando la vicenda lo vede coin­volto in prima per­sona. In entrambi i libri, i temi e le imma­gini ricor­renti dell’opera di Bolaño – la vio­lenza, il male come forza latente nell’uomo, il sesso, la let­te­ra­tura, l’esilio e via dicendo – si alter­nano in maniera simile, seguendo un per­corso per molti versi parallelo.

Sia l’uno che l’altro attin­gono a ricordi ed espe­rienze per­so­nali, ma l’uso fram­men­ta­rio del mate­riale auto­bio­gra­fico è quasi sem­pre tra­sver­sale, se non elu­sivo. Infine i titoli. Entrambi pro­ven­gono da uno dei rac­conti con­te­nuti nel libro, scelta cer­ta­mente più che nor­male per un rac­colta e sulla quale si potrebbe tran­quil­la­mente sor­vo­lare se entrambi i titoli non fos­sero com­po­sti di due parole, un sostan­tivo al plu­rale seguito da un agget­tivo, quasi che tutti i rac­conti dei rispet­tivi libri vadano intesi in quella chiave, come se ognuno di essi allu­desse in qual­che misura a una chia­mata tele­fo­nica o ai rac­conti di una put­tana assassina. È evi­dente che tra le due cose sus­si­ste una diver­sità abis­sale. Una chia­mata tele­fo­nica è tanto ordi­na­ria quanto non è da chiun­que e di ogni giorno la fre­quen­ta­zione di put­tane assas­sine; senza con­tare che, nel mondo reale, alle pro­sti­tute tocca assai più spesso la parte delle vit­time. Per Bolaño, que­sta distanza è tut­ta­via assai minore. Nella sua opera le conversazioni telefoniche prendono spesso pieghe poco ras­si­cu­ranti; lo squillo di un appa­rec­chio e lo scam­bio di bat­tute che ne segue hanno spesso una qua­lità inde­fi­ni­bil­mente miste­riosa, quasi che lo scopo prin­ci­pale di un tele­fono sia quello di gene­rare inquie­tu­dine. Per con­tro, è tipico di scrit­tori e poeti avere un occhio di riguardo per le pro­sti­tute. Bolaño non faceva ecce­zione. Restando nel solco di una pas­sione che acco­muna tanti, da Catullo a Bau­de­laire, oltre ad amarle, Bolaño rite­neva che le put­tane fos­sero «la cosa più somi­gliante che ci sia a un oro­lo­gio. Le put­tane sono le donne-orologio per eccel­lenza». Non disse di più, non chiosò que­sta sua immagine.

Può darsi che le atten­zioni mer­ce­na­rie delle pro­sti­tute fos­sero per lui la migliore con­ferma che il tempo è denaro, ma in fin dei conti è irri­le­vante sta­bi­lire cosa inten­desse con esat­tezza. Conta piut­to­sto la dimen­sione del tempo in rela­zione ai rap­porti umani e alla let­te­ra­tura, ed è pro­prio nello spa­zio con­cen­trato e ridotto del rac­conto che emerge con chia­rezza come sia il tempo a dare sostanza alla voce nar­rante, a defi­nire da quale pro­spet­tiva ven­gono osser­vati gli eventi. Può sem­brare un’ovvietà, giac­ché qua­lun­que opera nar­ra­tiva implica neces­sa­ria­mente un’organizzazione tem­po­rale. Bolaño si serve indi­stin­ta­mente dei tanti modi in cui un nar­ra­tore può rac­con­tare una sto­ria. Si serve tanto della prima per­sona che della terza. Rac­conta tanto al pre­sente che al pas­sato, e a volte usa per­fino la forma un po’ desueta del dialogo. Alcuni suoi rac­conti pro­ce­dono dritti come un sparo, tra­sci­nati dal treno degli acca­di­menti; altri paiono attor­ci­gliarsi seguendo il filo più tor­tuoso dei ricordi. In tutto ciò non vi è nulla di par­ti­co­lar­mente nuovo o distin­tivo. A ren­dere incon­fon­di­bile la sua scrit­tura o, per essere più pre­cisi, lo sguardo col quale essa si mani­fe­sta è altro, ovvero la con­si­stenza quasi spa­ziale che il tempo sem­bra assu­mere nei suoi rac­conti, qua­lun­que sia la stra­te­gia nar­ra­tiva adottata.

Tommaso Pincio "Ritratto di Roberto Bolaño con stelle distanti" 2012, tecnica mista su tavola, cm. 65 x 50

Tommaso Pincio “Ritratto di Roberto Bolaño con stelle distanti” 2012, tecnica mista su tavola, cm. 65 x 50

In Bolaño, il tempo non viene per­ce­pito come sem­plice fluire né come fuga né tanto meno come un ripe­tersi, un eterno ritorno; è piut­to­sto un con­fine, un mar­gine, serve cioè a mar­care una distanza di qual­che tipo, una sepa­ra­zione, a deli­mi­tare un buco, un’assenza, una spa­ri­zione. Spesso si parla di Bolaño come di un esule e non si può certo negare che lo fosse, tanto più che i suoi rac­conti abbon­dando di per­so­naggi che, volenti o nolenti, con pia­cere o dispe­ra­zione, si tro­vano a vivere lon­tano dal pro­prio paese. Non­di­meno quando parla di sé o, meglio, quando parla di Arturo Belano, l’esilio non prende mai i carat­teri della nostal­gia. È sem­pli­ce­mente una distanza. Uno dei rac­conti di Put­tane Assas­sine ha ini­zio pro­prio con una festa di cileni esuli in Europa alla quale par­te­cipa un let­te­rato, un certo B, nel quale è facile disti­guere i tratti dello scrit­tore seb­bene la voce nar­rante metta tra sé e lui una diver­sità di vedute e sen­ti­menti. Pur essendo un cileno resi­dente a Bar­cel­lona, B dete­sta gli esuli del paese. La pos­si­bi­lità di tor­nare in patria, che alcuni suoi cono­scenti tro­vano sedu­cente, «a B pare un’idea atroce». Il pas­sato come madre­pa­tria, più che rim­pianto, sem­bra susci­tare ran­core o, a essere più bene­voli, una disin­can­tata dif­fi­denza. Ciò non tanto e sol­tanto per le ovvie memo­rie della dit­ta­tura, quanto per il com­por­ta­mento delu­dente della sini­stra lati­noa­me­ri­cana. Bolaño non tornò mai in Cile, se non bre­ve­mente, e pro­prio in un’intervista rila­sciata in occa­sione di una visita lampo spiegò di non pro­vare alcuna nostal­gia, nes­sun par­ti­co­lare sen­ti­mento verso i luo­ghi in gene­rale, giac­ché di essi gli inte­res­sava uni­ca­mente il destino delle per­sone che li ave­vano abi­tati. Ed è qui che entra in gioco il tempo. In un certo senso Bolaño esi­bi­sce per via let­te­ra­ria ciò che la fisica ha dimo­strato: che il tempo non esi­ste se non come mani­fe­sta­zione dello spa­zio. In un dato momento un luogo è abi­tato da una per­sona, in un altro momento que­sta stessa per­sona non è più in quel luogo: temi e stile della scrit­tura di Bolaño discen­dono tutti da qui.

È per l’appunto ciò che avve­niva con una chia­mata quando la tele­fo­nia non era ancora mobile. L’apparecchio squilla ma all’altro capo non risponde nes­suno (cosa fre­quente in Bolaño): il tempo è il mede­simo per chi chiama e per chi dovrebbe rice­vere, ma la man­cata rispo­sta tra­sforma que­sta simul­ta­neità in un abisso o in una scom­parsa (un per­so­nag­gio di Put­tane assas­sine si sui­cida dopo aver telefonato). Oppure l’apparecchio squilla e dall’altro capo, da chissà dove, giunge la voce di una per­sona sco­no­sciuta, ed è que­sto un tipo di distanza più simile al rap­porto con una pro­sti­tuta: la vici­nanza può essere forte, anche estrema, ma trat­tan­dosi di una rela­zione a tempo, rego­lata dal denaro, il grado effet­tivo di inti­mità è sem­pre ambi­guo o inco­no­sci­bile (un per­so­nag­gio di Put­tane assas­sine sco­pre di flir­tare con una pro­sti­tuta sol­tanto in un secondo momento e per caso). Bolaño spesso imba­sti­sce sto­rie a par­tire da incon­tri occa­sio­nali o mar­gi­nali, e anche quando parla di pre­senze più che fami­gliari (il padre, per esem­pio) è pre­va­lente la dina­mica del distacco. Pro­ta­go­ni­sti e voci nar­ranti non sono mai il cen­tro della sto­ria, ma sol­tanto un’estremità, un capo del tele­fono. Tra i suoi modi di rac­con­tare uno trova il suo ver­tice nei Detec­tive sel­vaggi, dove le vicende dei due pro­ta­go­ni­sti (i real­vi­sce­ra­li­sti Uli­ses Lima e Arturo Belano) sono sem­pre viste da fuori, da una folla di occhi altrui e con i buchi tem­po­rali che un simile sguardo fatal­mente com­porta; ma comin­cia a acqui­sire la prima forma com­piuta nei rac­conti di Chia­mate tele­fo­ni­che e trova il suo ideale pro­se­gui­mento in quelli di Put­tane assassine.

Roberto Bolaño
«Puttane assassine»
tra­du­zione di Ilide Carmignani
pagine 230
Adelphi
2015