Per lungo tempo Thomas Ligotti è rimasto ignoto ai più. Per quasi trent’anni, dal 1986 a oggi, i suoi racconti sono stati pubblicati da editori piccoli se non minuscoli, stampati in poche centinaia di copie per una ristretta cerchia di cultori delle tenebre. Il Washington Post l’aveva definito «il segreto meglio conservato dell’horror contemporaneo». Poi, pressoché d’un tratto, il balzo. Dal 6 ottobre di quest’anno, grazie alla riproposta dei suoi primi due libri in un unico volume, è entrato a far parte della collana dei classici del mitico marchio Penguin, uno speciale olimpo che al momento accoglie soltanto dieci autori viventi. Ad accendere i riflettori su di lui è stata la serie più venerata e discussa della scorsa stagione televisiva, True Detective, anzi l’accusa di plagio rivolta al suo autore, Nic Pizzolato. Stando ad alcuni, le battute più significative di Rustin Cohle sarebbero infatti prese di sana pianta o quasi dai libri di Ligotti. Chi non è rimasto colpito dalle cupe elucubrazioni del detective nichilista interpretato da Matthew McConaughey? L’umanità è una specie contro natura. Dovremmo smettere di riprodurci. Ebbene, in un suo testo dal titolo fin troppo eloquente, La cospirazione contro la razza umana, Ligotti sostiene all’incirca le stesse cose, individuando nell’eccesso di consapevolezza tipico dell’homo sapiens «la fonte di tutti gli orrori». Ovviamente la HBO e Pizzolato hanno respinto ogni addebito, rimarcando non senza ragione che il pessimismo autodidatta del personaggio attinge a una lunga tradizione filosofica che va da Nietzsche a Cioran. E mentre altri scovavano nuove e sospette similitudini tra True Detective e Twin Peaks, insinuando così che perfino David Lynch deve qualcosa a Ligotti, lui, il diretto interessato, lo sconosciuto più plagiato dalle televisioni d’America, declinava ogni commento.
«Ovunque si posi un vostro pensiero, il pensiero di altre persone vi ha già lasciato un’impronta» dice un suo personaggio in Teatro grottesco, quasi a significare che il plagio, proprio perché inevitabile, è una nozione risibile. Del resto, negli stessi racconti di Ligotti, ambientati in cittadine cadenti e minacciose, risuonano molti echi. Le ombre notturne di Poe e Lovefract vi aleggiano maestose assieme alla levigata visionarietà di Kafka e Bruno Schulz. Semmai non fosse ancora chiaro, è di un grande scrittore che stiamo parlando. Il genere orrorifico gli va a dir poco stretto in quanto Ligotti dubita dei suoi stessi fantasmi. È un pessimista autodidatta convinto che, in fondo, mostri, divinità e altre creature aliene non esistano. Malgrado infestino le nostre teste, certe apparizioni non sono cose vere ma indizi. Segnali di forze che dimorano in noi e che scambiamo per fantasmi di un inferno che non c’è, se non dentro di noi. Di orgine italiane, Ligotti nasce nel 1953 a Detroit, città dove vive tuttora e che, col suo disfacimento postindustriale, le sue periferie abbandonate, fa da lugubre e indistinto sfondo a racconti che dell’orrore tradizionale conservano soltanto l’atmosfera, il senso di inquieta sospensione che precede il manifestarsi del mostro. La violenza, il sangue sono del tutto assenti o quasi. Molto presenti invece i disturbi gastrointestinali. I suoi personaggi ne sono immancabilmente afflitti, a cominciare dal protagonista di Teatro grottesco. È nei visceri dell’addome che prendono forma gli incubi a occhi aperti di questi uomini deliranti e scorati. L’intestino malato come lato oscuro della mente, dunque; come porta affacciata sulle tenebre, la porta che ha fatto di Ligotti «un sognatore professionista di brutti sogni».
Il saggiatore, 2015
traduzione di Luca Fusari