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[Pochi giorni fa, l’11 maggio scorso, è scomparsa Katherine Dunn. In 70 anni di vita movimentata ha pubblicato tre romanzi uno dei quali è diventato un classico del nostro tempo; ha scritto saggi e montagne di articoli sulla boxe, che conosceva bene; e fumato un sacco di sigarette. Ho avuto la fortuna di conoscerla e dico fortuna perché era una donna adorabile e scapestrata, di una tempra d’altra epoca. Le dissi anche fumava troppo. Lei rispose guardandomi e basta, con un sorriso di commiserazione il cui senso eloquente era: Pensa a vivere. Una volta, al termine di un’intervista, le chiesero cosa le piacesse fare quando non lavorava. «Camminare e parlare, e poi fumare e bere caffè. Ora che ci penso, credo sia quello che faccio anche quando lavoro». Erano diversi anni che non avevo più sue notizie, ma mi capitava comunque di pensare a lei. Seguiterò a penserla. Il pezzo che segue è di molto tempo fa. Dice sommariamente chi era e cosa ha scritto. Riposa in pace, Katherine, e fuma quanto ti pare].

È quasi una legge di natura. In America, chiunque voglia rifarsi una vita si mette in viaggio verso ovest, verso l’Oceano Pacifico. La metà ideale è la California, notoria patria di scoppiati. Ma se non si hanno abbastanza soldi per stabilirsi a Los Angeles o San Francisco, l’alternativa più economica è Portland, nell’Oregon, un bel po’ più a nord lungo la costa. «È per questo che abbiamo fra noi i più scoppiati fra gli scoppiati. La crema dei disadattati» spiega Katherine Dunn. «Non facciamo che accumulare gente strana. Qui a Portland siamo tutti profughi e fuggiaschi». Anche lei lo è. La sua era «una tipica famiglia di proletari americani con il prurito ai piedi», che si spostava da una fattoria all’altra in cerca di lavori stagionali. Katherine è nata nel Kansas, ha viaggiato in lungo e in largo per gli Stati Uniti, alla fine si è fermata coi suoi a Portland, dove ha frequentato le scuole superiori e l’università. Aveva un bel caratterino. Voleva diventare scrittrice e ha vinto una borsa di studio per dedicarsi il suo primo romanzo. Le piaceva la boxe ed è diventata la prima giornalista donna esperta in questo sport per uomini. Ma prima di ciò è dovuta passare attraverso una lunga serie di esperienze piuttosto diversificate: cameriera, conduttrice radiofonica, decoratrice e truffatrice. Sì, anche truffatrice, perché a un certo punto, trovatasi a corto di soldi, non trovò meglio da fare che staccare una assegno a vuoto. Tanta leggerezza le valse un soggiorno premio di un paio di settimane nelle patrie galere di Leavenworth, nel Kansas. Lo ricorda come «un punto di svolta» nella sua vita. Seppe ricavarne infatti qualcosa di buono, poiché proprio l’esperienza carceraria è alla base del suo libro d’esordio.

Il romanzo che le ha regalato il successo è però scaturito da un’esperienza decisamente più idilliaca, passeggiando in un giardino di rose. «Ce n’erano di tutti i tipi e tutte bellissime, alcune erano davvero bizzarre in quanto frutto di innesti e incroci. Mi fecero tornare in mente un mio interesse di sempre, la biologia e le manipolazioni genetiche. Considerai che tra non molto saremmo stati in grado di progettare bambini alla stessa maniera delle rose. Mi venne l’idea per un romanzo e corsi a casa per scriverlo». Il romanzo è Geek Love. Uscito nel 1989, fu finalista del più prestigioso premio letterario americano, il National Book Award, e divenne un classico per un’intera generazione di scrittori, quella dei nostri tempi. Katherine Dunn è la madre infatti putativa di Jonathan Lethem, Michael Chabon, Dave Egger, Alice Sebold e soprattutto di Chuck Palahniuk, altro cantore degli squinternati dell’Oregon, che le ha dedicato un vivido e appassionato ritratto in Portland Souvenir, guida indispensabile per chiunque voglia conoscere questa città di stranezze. A distanza di quasi vent’anni Geek Love non è mai andato fuori catalogo, sempre ristampato ha finora venduto oltre seicentomila copie, una cifra più ragguardevole considerato che stiamo parlando di un libro poco adatto ai deboli di stomaco. Non a caso i diritti per la trasposizione cinematografica furono a suo tempo acquistati da Tim Burton e Terry Gilliam. Quindi passarono nelle mani di Johnny Depp. Sebbene sia nata in un orto botanico, Geek Love non è una storia rose e fiori. A raccontarla in prima persona è Olympia Binewski, una nana pelata, albina e, per giunta, con la gobba. Il suo singolare aspetto non è frutto di uno sbaglio di natura, bensì una deviazione scientemente pianificata a tavolino.

I bambini di casa Binewski, chi più chi meno, hanno tutti qualche difettuccio che li rende assai particolari. Il fatto è che i loro genitori, essendo proprietari di un circo itinerante, il Favoloso Parco delle Attrazioni Binewski, hanno avuto la bella pensata di garantire alla prole un lavoro sicuro. Il sistema, ingegnoso quanto discutibile, è semplice: mettere in piedi una sorta di vivaio di mostri. Ogni qualvolta mamma Binewski si ritrova in dolce attesa comincia a ingurgitare schifezze di vario genere: pillole, veleno per topi, insetticidi e qualunque altra cosa possa favorire una bella malformazione alla creatura che porta in grembo. Se il bambino nasce morto, poco male. Lo si potrà sempre conservare sotto spirito in un barattolo di vetro da mostrare ai visitatori. Quelli che sopravvivono potranno invece lavorare nel circo tutta la vita. «Quale miglior regalo si può fare ai propri figli se non la capacità di guadagnarsi da vivere limitandosi a essere se stessi?» Ovviamente, il motto di casa Bineswki non poteva che essere: «Veri mostri non si diventa, si nasce». E loro, i mostri, non si sentono per nulla handicappati. Anzi. Essere freak lo vedono come un dono, una benedizione. Badate, però: con il suo mirabolante romanzo, Katherine Dunn non ha inteso impressionarci né disgustarci, ha cercato soltanto di farci vedere la normalità da un altro punto di vista. Qualcuno ha detto che l’horror non è genere letterario ma un’emozione, ed è proprio in questi termini che Geek Love può essere definito una storia horror. I suoi protagonisti non sono semplicemente intrappolati nelle loro deformità fisica, ma presi in un gioco al contempo felice e infernale, un gioco che tutti noi ben conosciamo: la morbosa e soffocante geometria degli affetti famigliari. Succede allora che l’orrore iniziale si trasforma in una comicità al contempo macabra e commovente che fa da guscio a un’inquietante possibilità. Che siano forse i sentimenti i veri mostri?

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