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115. ANDAVO A UNA SCUOLA di ragazzi per bene. Quelli più grandi rapirono due ragazze e le torturarono in tutti i modi, cercando di annegarle in una vasca da bagno. Poi le chiusero, una morta e l’altra che ancora respirava, nel bagagliaio di un’auto. A questo punto le leggi del racconto imporrebbero di andare avanti, ma tutti sanno come è andata a finire perché leggono i giornali. E io posso dedicarmi a cercare altrove la gloria.

Edoardo Albinati, Orti di guerra

1. In diverse occasioni più o meno pubbliche Edoardo Albinati ha raccontato che La scuola cattolica è stato scritto nell’arco di nove anni. La mole ma soprattuto la natura ruminante del romanzo, il suo respiro lento e ossessivo rendono più che verosimile se non obbligato un tempo di queste proporzioni. Nei suoi racconti, sempre coincidenti e coerenti, lo scrittore individua anche un preciso inizio, un momento scatenante ben definito. Stando alla sua versione, il libro sarebbe scaturito da un fatto accaduto nell’aprile del 2005, l’uccisione di due donne da parte di Angelo Izzo, all’epoca in regime di semilibertà da pochi mesi. Il duplice omicidio avrebbe risvegliato in Albinati il ricordo di una storia risalente a trent’anni prima, il massacro del Circeo di cui lo stesso Izzo si era reso responsabile assieme a Gianni Guido e Andrea Ghira, il primo scarcercato nel 2008, l’altro forse morto contumace nella legione straniera spagnola. Era una storia che Albinati sentiva sua perché i tre massacratori erano quasi suoi coetanei e avevano studiato nella stessa scuola di preti da lui frequentata negli anni dell’adolescenza. Era però anche una storia che Albinati aveva sepolto e dimenticato, come è giusto che era giusto che fosse. «Giusto» nell’ottica di Albinati, che si dichiara contrario all’idea di una memoria forzata, convinto (non virgoletto ma trascrivo abbastanza fedelmente le sue parole) che il passato debba essere lasciato alle spalle e che la funzione della letteratura, come pure del cinema e di altre cose, non sia quella di favorire il ricordo conservandolo in una specie di museo interiore bensì di non trattenerlo, di consumarlo per andare avanti.

Il rovesciamento di luoghi comuni e idee diffuse r accettate è un modo di ragionare tipico di Albinati, un modo non di rado seducente e persuaviso ma a volte anche ingannevole, come in questo caso. La prospettiva che la letteratura non sia un presidio del ricordo è di sicuro accattivante, solleva gli scrittori, e forse perfino i lettori, da un peso, ma quanto risponde al vero? A conti fatti la letteratura non funziona diversamente dai cervelli che la producono. L’immensità delle cose contenute nei libri è niente al confronto delle cose vissute e pensate dalle persone che hanno scritto quei libri, per non parlare delle cose vissute e pensate dal genere umano nel suo complesso. Se diamo per buona questa ovvietà, ciò che la letteratura dimentica appare di gran lunga maggiore a quanto conserva nei libri e il rovesciamento di Albinati acquista un suo senso. Il guaio è che pure il nostro cervello dimentica più di quanto ricordi. Se gli anni trascorsi ci sembrano volati come frecce è proprio perché di essi ci è impossibile ricordare ogni singolo secondo. Vien da chiedersi il perché del tanto tempo perduto o, per meglio dire, obliato. Perché intere giornate che pure abbiamo vissuto restando presenti a noi stessi e al mondo in cui vivevamo svaniscono come le avessimo trascorse dormendo o in uno stato di incoscienza? E perché a volte non ci riesce di ricordare un’informazione che pure sappiamo conoscere benissimo? Perché il nome di una persona o la parola giusta restano confinate alla punta della lingua? Non fosse che spesso ci scopriamo incapaci di richiamare alla mente cose per noi importanti verrebbe da pensare che la funzione della memoria sia quella di scartare ricordi, selezionare il passato, sbarazzarsi dell’irrilevante per conservare il necessario. C’è poi un altro fatto: nemmeno i ricordi che restano sono scolpiti nella roccia. Espressioni come imprimersi nella memoria o lasciare un’impronta sono vere soltanto in parte. Un’impronta può costituire una traccia importante ma è cosa diversa dal piede che l’ha lasciata, anzi diciamo pure che è il suo esatto contrario, il suo negativo. In un’impronta, il convesso diventa concavo e viceversa, il pieno si mostra nella forma di un vuoto e il vuoto in quella di un pieno. Lo stesso vale per la memoria. Appena ricordiamo, l’oggetto del ricordo si altera, conserva i suoi contorni ma assume anche una consistenza ambigua e più labile di quel che tendiamo a pensare. «La possibilità che gli esseri umani hanno, in qualsiasi circostanza, di ricordare le cose del passato» dice una donna in un racconto di Kawabata, «è sicuramente una benedizione degli dei». Peccato che la donna del racconto parli così rievocando una cosa in effetti mai accaduta. Ora se possiamo dare per scontato tutto ciò, se accettiamo che il ricordo è difettoso per definizione, perché incentivare la smemoratezza con la letteratura? Sempre che la voglia di oblio sia effettiva e non simulata.

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2. Perché accade anche questo: che si finga di dimenticare quando invece si ricorda benissimo, o che si finga di volere dimenticare mentre si vuole tutt’altro. Racconta Albinati che è stato il ritorno all’assassinio di Izzo a far saltare la pietra messa sopra la storia del Circeo. A quel punto sarebbe nata di l’idea di scriverne ricordando davvero, non concentrandosi tanto sul fatto criminale per darne l’ennesima versione, ma sul quartiere da cui tutto è partito. Il quartiere Trieste, vero protagonista del romanzo, enclave residenziale esterna alla cinta muraria di Roma ma comunque molto distinta, tanto da sembrare costruita apposta perché i suoi abitanti vi conducano un’esistenza tranquilla, indifferente e ignara di qualunque bruttura, estranea alle tensioni che tormentano altri quartieri. Perché proprio in quartiere al riparo da tutto, si sarebbe chiesto Albinati, perché proprio da quella scuola e tra i quei ragazzi è nata una storia come quella? Questa dunque l’origine, almeno secondo il suo autore. Perché dico almeno? Che motivo ho di dubitare? All’apparenza nessuno. Tutto pare filare. Albinati pur volendo dimenticare si è dovuto arrendere a un passato che non era disposto a passare, perché non tutti gli eventi si lasciano cancellare come niente fosse, alcuni si dimostrano più ostinati e persistenti di altri e possono essere lasciati alle spalle soltanto prendendoli di petto, raccontandoli come è succusso ad Albinati. Che c’è di strano? All’apparenza niente, ripeto. Eppure se si scandaglia la sua opera precedente qualche sospetto viene. In Maggio selvaggio. Un anno di scuola in galera, per dire, leggiamo: «A undici anni non avremmo proprio saputo indovinare quello che avrebbero combinato i ragazzi un po’ più grandi di noi, appena raggiunta la maggiore età, cioè la generazione che sarà siglata dal cosiddetto “delitto del Circeo”: tutta gente nata e cresciuta nella bambagia del quartiere Trieste a Roma e poi finita in galera per ogni genere di assassini, un bel po’ dei loro compagni di classe furono sparati, incarcerati, o svanirono nel nulla. Se penso al fatto che ci ho passato insieme tanti anni… (da sviluppare)».

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L’appunto, datato 1997 e dunque risalente a quasi dieci prima il presunto riaffiorare del delitto del Circeo, prova non soltanto che Albinati non aveva messo una pietra su quel fatto, ma che vi scorgeva già un’emanazione malata del suo quartiere, una questione «da sviluppare». L’argomento di un libro, in pratica. Ma se così è, perché Albinati sostiene che il romanzo ha preso forma soltanto più tardi, lasciando intendere che forse non l’avrebbe mai scritto se Izzo non fosse tornato a uccidere? Ammettiamo pure che si riferisca semplicemente al momento in cui si è messo effettivamente al lavoro, quello in cui ha rispolverato una vecchia idea, ma perché omettere che quell’idea esisteva da molto tempo ed era già ben definita nei suoi tratti sostianziali? Forse che l’idea l’abbia sfiorato soltanto di sfuggita, che sia stata dimenticata poco dopo essere stata appuntata? Possibile. Curioso però che la stessa storia compaia con modalità pressoché identiche in un altro suo libro, Orti di guerra. Anche qui il passo è brevissimo ma contiene tutto: il delitto dei compagni più grandi, la scuola del quartiere per bene e perfino, seppure elusa, la possibilità di trarne materia di scrittura. Il motivo per cui Albinati si concede di passare oltre per cercare la gloria altrove, per usare le sue parole, è che «tutti sanno come è andata a finire perché leggono i giornali». L’idea di scrivere del delitto del Circeo e del quartiere Trieste non può perciò dirsi passeggera e, a meno che pure il ricordo di Orti di guerra non sia andato perduto, il modo più naturale di raccontare la genesi della Scuola cattolica dovrebbe essere pressappoco il seguente: da molti anni avevo in mente di scrivere un libro sul delitto del Circeo e il mio quartiere, ma per un ragione o per l’altra ho ritenuto di accantonare l’idea fino al 2005 quando è successo quello che è successo. Tuttavia non è così che Albinati la racconta e la sua versione viene in parte smentita dai suoi stessi libri. Non la si può considerare falsa ma neanche risponde al vero. Un’imprecisione veniale, si dirà, minima, ma è proprio l’apparente irrelevanza che dà da pensare. Perché questa versione di comodo? Forse per semplificare? Forse perché il romanzo scaturito dal passato che non passa, dall’assassino che torna a uccidere, porta il segno di una fatalità, di un qualcosa che non poteva non essere scritto? Possibilità più che plausibili anch’esse, eppure ho la sensazione che vi sia dell’altro, un motivo più profondo che Albinati tende a nascondere o non svelare fino in fondo, ed è proprio questa sensazione che mi spinge a iniziare un diario della Scuola cattolica.

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3. Anche il caso vuole la sua parte. La vuole da sempre. L’ha voluta anche stavolta. Non sono un conoscitore dell’opera di Edoardo Albinati o almeno non lo ero fino a poco tempo fa. Prima di interessarmi alla Scuola cattolica ne avevo un’idea vaghissima. Perfino la stessa persona di Albinati mi risultava sfocata, spesso confusa con quella di Eraldo Affinati e talvolta così inglobata nel suo quasi omonimo da venirne fagocitata. Malgrado la scrittura del primo fosse di gran lunga più affine ai miei gusti, cancellavo il primo nel secondo, nel sospetto che non si trattasse di due persone distinte ma di una soltanto che, a seconda dei momenti, dei capricci di memoria, potevo chiamare Eraldo Albinati o Edoardo Affinati. Uno scambio ristretto unicamente ai nomi, perché, quanto agli uomini, uno soltanto veniva ricacciato nel cimitero dei probabili inesistenti. Albinati non se abbia male, ma c’è stato un tempo in cui Maggio selvaggio era un libro di Affinati anche mi quando mi succedeva di chiamare l’autore col nome giusto. Sebbene avessi incontrato Affinati al massimo un paio di volte; il suo aspetto, la pelata, i baffetti, la predilezione per i capi neri, l’aria da pistolero alla Lee Van Cleef mi erano ben chiari. Albinati invece era una nube. Mai visto e mai sentito parlare e la voce per me è un elemento imprescindibile per saldare una faccia al suo proprietario. Sarà questo il perché del mio interesse ossessivo per i ritratti, perché tendo a isolare i volti in un quadro, a ricordarmeli rigidi e muti, in posa, staccati da tutto, sospesi anzi carcerati nel vuoto ideale in cui abita la pittura. Peraltro Albinati sarebbe perfetto per un ritratto. Un ritratto del tipo che piace a me. Il tipo di ritratti in cui il viso resta anonimo, una faccia pescata tra tante, messa a lì a fissare un vuoto che non riguarda lei, la faccia, ma i futuri contemplatori del dipinto. Ora che l’ho ben presente, riconosco in lui un segno ben preciso, la vocazione di chi non vuole passare particolarmente osservato. L’Albinati attuale aderisce alla perfezione, in maniera quasi mimetica, a quel che dovrebbe essere. Uomo maturo, da tempo nel viale della mezza età, si mostra medio in tutto, nei lineamenti regolari del volto rasato, nel taglio dei capelli, nell’abbigliamento. Sobrio nei modi e nell’aspetto, in passato lo si sarebbe definito un uomo piacente e distinto, l’abitante ideale di un quartiere come il suo. Fa pensare a un padre di famiglia dalla vita regolare e realizzata, solido, integro, benestante. Un borghese dal vestito potenzialmente grigio alla Gregory Peck o alla Cary Grant, che da ragazzino tendevo difatti a confondere più di quanto non abbia poi confuso Albinati e Affinati.

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Quella di Albinati è però una mediatà perseguita con metodo, frutto appunto di una vocazione, un ripudio dell’appariscenza che si riscontra anche nella sua prosa, anch’essa distinta, sempre impeccabile e piacevole ma mai ostenta, mai sbilanciata. In sostanza uno stile. Albinati, s’intende, ne è fin troppo consapevole. Nella Scuola cattolica, a pagina 257, confessa di odiare l’enfasi in qualsiasi scritto o discorso la ritrovi. Un sentimento — Albinati parla in effetti di attitudine — cui se ne accompagna un altro di accento molto diverso la «involontaria tendenza ad assumere il tono e il ritmo della predica non appena tratto un argomento che mi sta a cuore. Nelle occasioni mondane, ad esempio, sto spesso zitto, il più a lungo possibile, ma se per caso attacco a parlare, e per qualche ragione sento di dover spiegare meglio ciò che penso, in poco tempo scivolo in una postura da predicatore, martellante e ossessiva, finendo per sopraffare o annoiare quelli con cui parlo, ed è anche questa la ragione per cui preferisco tacere». In queste due attitudini — di fatto due estremi — sembra di riconoscere le due fasi che hanno generato La scuola cattolica. Un lungo tempo di silenzio in cui la storia del Circeo pur incombente viene rimossa o tenuta comunque a bada sapendo che prenderla di petto avrebbe comportato straripamenti di ogni tipo e un altro successivo in cui gli argini non reggono più e Albinati «attacca a parlare» in maniera martellante e ossessiva, scrivendo un romanzo che fatalmente, ma anche per volontà del suo autore, scivola spesso nella predica. Resta tuttavia da capire perché la fase della predica venga presentata per quella che è, mentre sulla prima, quella del silenzio, dell’attitudine a non passare troppo osservato, permangano zone d’ombra o poco chiare. Ma non è ancora il momento di affrontare questo nodo. C’è ancora da dare al caso la parte che esso reclama.

(continua)