Strappò il Pulitzer del 1935 a Francis Scott Fitzgerald, quell’anno in lizza con Tenera è la notte. Appena venticiquenne e ancora studente, era al suo romanzo di esordio. Si chiamava Josephine Johnson, viveva in Missouri con sua madre, in un piccolo centro di poche migliaia di abitanti, circondata dalla sterminata natura del Midwest. Sul momento venne paragonata a Emily Dickinson ed Emily Brontë, ma nel giro di soli quattro anni, Simon & Schuster, il suo editore, rifiutò di pubblicarle un nuovo romanzo. Seguitò a scrivere e a vivere nel Midwest, imboccando il viale della marginalità e rasentando anche quello dell’oblio. All’indomani della sua morte, avvenuta nel 1990, il New York Times la ricordava quasi unicamente per l’afflato ecologista, che fu soltanto un aspetto dell’articolato impegno sociale della scrittrice. Che la sua luce abbia brillato alla maniera di una meteora rende per certi versi più prezioso il suo splendore. Baciato dall’incanto di un’ispirazione irripetibile e sostenuto da una voce di rara intensità, meravigliosamente resa in traduzione da Beatrice Masini, Ora che è novembre nacque dal desiderio di «scrivere un libro che interessi tanto per quel che succede ora quanto per quel che succede dopo». Così si espresse la stessa autrice con il suo editor e in effetti, malgrado il romanzo racconti una storia in cui il disvelamento del dopo è tutt’altro che indifferente al lettore, lo svolgersi dell’azione appare racchiuso in un unico grande ora dove le stagioni scorrono l’una dentro l’altra, senza mai stare ferme ma anche senza rapidità.
«Ora che è novembre riesco a vedere gli anni come una cosa sola» dice la voce narrante nel dare inizio alla storia. Siamo negli anni cupi della Grande Depressione, quando la difficoltà di tirare avanti faceva sembrare tutto sbagliato. Costretto a lasciare la città per via della crisi, Arnold Haldmarne torna nella campagna che aveva lasciato da sedicenne; torna in un terreno gravato da un’ipoteca e non meno duro della città, non meno pronto a fiaccare la determinazione di un uomo. Ci torna con un’impazienza malata, privo della rassegnazione che un contadino dovrebbe avere. Ci torna affondando nella palude senza fondo dei debiti. Ci torna separato dal resto della famiglia da quell’abisso nebuloso che percepisce tra sé e tutte le donne. Perché la sua è una famiglia di tutte donne, a parte lui. Ha una moglie che affronta ogni cosa in silenzio, vivendo la vita degli altri come fosse la sua, e tre figlie che ricordano quelle di Re Lear. Kerrin, agitata nell’intimo da una marea di tenebre, è la Goneril della situazione. Vengono poi Marget, che si sente niente in tutto, e Merle, la minore oltre che la più operosa e centrata. Le tre sorelle sono tanto diverse nel carattere quanto simili nei limiti che la società impone ancora alle giovani donne. Impossibilitate a conoscere alcunché se non la campagna attorno casa, private di una vita sessuale e tuttavia chiamate a essere attraenti e pronte per il matrimonio, non hanno che i libri per avventurarsi nel mondo esterno.
Nel lento depositarsi dei giorni e degli anni irrompe però Grant, giovane trentenne assunto per dare una mano a lavorare la terra. Fatalmente la nuova presenza porta scompiglio nell’animo e nei sensi delle ragazze, alimentando tensioni inespresse. Come queste tensioni raggiungeranno il picco per poi esplodere ci viene raccontato da una delle tre ragazze, Marget, quella che si sente più esclusa dai giochi e dalle possibilità dell’amore. E lo fa con una voce indimenticabile, immersa nella natura e in drammi sociali che all’epoca raccontò anche Steinbeck. È la voce di una ragazza che vive nel furore cupo di un’adolescenza repressa, sul limitare della linea d’ombra che la separa dal diventare donna, e morsa dal dubbio che crescere non cambi più di tanto le cose, che il tempo dilati ma non trasformi nulla lasciando il mondo com’è: tutto sbagliato.
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