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Sembra che Marco Polo, sollecitato sul letto morte a confessare di essere stato un impostore, disse ai suoi cari: «O amici, vi accerto di non avere scritto neppure la metà di quanto mi fu dato vedere». Era il beffardo destino dei viaggiatori che allora si spostavano in luoghi lontani: passare per mentitori non perché avessero davvero mentito, ma perché i loro racconti si discostavano troppo dalle leggende che su quei luoghi circolavano. Sicché molti si rassegnavano ad adeguare la realtà alle fantasie o, come Marco Polo, a non dire tutto nel timore di non essere creduti. Nel mondo più piccolo di oggi, un mondo del quale crediamo di sapere tutto, le cose non sono tanto cambiate. Che sia per paura della realtà o per il semplice capriccio di eluderla, spesso tendiamo a credere più allo straordinario che non a ciò che è semplicemente vero, immediato, presente sotto i nostri occhi. Per molti anni della sua vita di scrittore, Kent Haruf è partito per un luogo lontano. E sembra che prima di partire si abbassasse sopra agli occhi un berretto di lana, in modo da scrivere alla cieca. Batteva le dita sui tasti senza vederli, senza controllare le parole che andavano sfilando sul foglio, senza preoccuparsi della punteggiatura, di andare a capo. Il luogo lontano per cui partiva si chiamava Holt o almeno questo era il nome che lui gli aveva dato. Era un luogo lontanissimo, così lontano da non comparire sulle mappe e che nessun viaggiatore, neppure Marco Polo, avrebbe potuto trovare.

Per quanto, «lontano» non è la parola giusta. Forse Holt è più sperduto che lontano. Forse nemmeno «sperduto» è la parola più giusta, ma è una parola più bella, più dolce, perché non altrettanto definitiva, perché contiene in sé, come in un unico e incantato deliquio, il dolore della perdita e la speranza del ritrovamento. Ciò vale anche quando la perdita riguarda il passato. E infatti, se Holt è più sperduta che non lontana, è perché la sua non è una lontanza frutto della geografia ma del tempo. Holt è una cittadina immaginaria, una sintesi ideale delle tante cittadine del Colorado in cui Haruf, cresciuto in una famiglia errante, ha trascorso la prima parte della sua vita. Partire per Holt non significava dunque tornare in un luogo preciso né in un preciso momento del passato. Significava tornare in un luogo indeterminato, al tempo in cui guardava ancora il mondo come se ancora non lo conoscesse bene, come fosse un luogo lontano sebbene fosse casa sua. Può darsi che, andando nella sua Holt, Haruf rievocasse anche precisi ricordi del passato e gli desse la forma che hanno le storie. Ma non erano tanto i ricordi a interessarlo. Cercava il tempo sperduto, non quello perduto. Cercava il tempo di Holt, il tempo in cui le case sull’altro lato della strada, gli alberi che facevano ombra e le rare macchine che ogni tanto passavano contenevano ancora tutti i misteri che contano nella vita. I misteri del quotidiano, quelli che ci ricordano semplicemente che siamo qui, senza prometterci straordinarie rivelazioni sul perché ci siamo. Il tempo di Holt – un tempo che è in tutti noi – proviene sì dalla giovinezza, ma non va perduto con la maturità. Si sperde soltanto nel fondo della nostra anima come in una notte buia.

 

È infatti un tempo che Haruf ha saputo recuperare fino all’ultimo. Anche quando un male incurabile pareva dirgli che non c’era più nulla da recuperare, lo scrittore ha seguitato a calarsi il berretto sugli occhi ed è tornato a Holt per raccontare con il tempo di Holt ciò che si vede quando si è prossimi alla fine, sul limitare del buio estremo. Le nostre anime di notte ha una lingua più scarna e pacata dei precedenti romanzi di Haruf, che pure si facevano apprezzare proprio per queste qualità, sempre rese con premura sensibile nelle traduzioni di Fabio Cremonesi. Al buio del berretto si è unito quello della notte. Tornare indietro, riscrivere una frase, abbellirla, sarà parso a Huruf ancor più inutile, quasi oltraggioso. Contava soltanto il racconto, l’ultimo, quello di due vedovi settantenni, vicini di casa, che un giorno, per iniziativa di lei, stringono una specie di matrimonio. «Ti andrebbe di venire da me, la notte. E parlare» propone Addie con la sana praticità di cui solo le donne sono capaci. «Le notti sono la cosa peggiore, non trovi?» «Sì. Credo di sì» risponde Louis. Holt è una piccola città e probabilmente avrà qualcosa da mormorare su questa inaspettata relazione. Ma che importa? La notte è lunga e l’alba lontana. O forse solo sperduta.

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One thought on “LE NOSTRE ANIME DI NOTTE

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