È con un libro intitolato Biographie comparée de Jorian Murgrave che Antoine Volodine fa la prima apparizione sulla scena letteraria francese. Non è il primo che scrive. È il primo che viene accettato da un editore. Glielo pubblica Denoël in una collana di fantascienza dal nome fin troppo evocativo, Présence du futur. Volodine si sente però qualcosa di più di uno scrittore di fantascienza. Lo si può capire, siamo nel 1985. Nell’anno successivo al più distopico di tutti gli anni è preossoché impossibile non sentirsi posteriori a qualsiasi idea di futuro. In effetti, Volodine si sente posteriore non soltanto alla fantascienza ma anche alla nozione di scrittore tout court, malgrado il suo disegno sia quello di dedicarsi unicamente alla scrittura. Nato nel 1950, cresciuto a Lione, ha alle spalle quindicini anni vissuti come insegnante e traduttore. Se si chiama Antoine Volodine è proprio per amore della lingua che ha insegnato e tradotto, il russo. In seguito adotterà anche altri nomi di battaglia – Elli Kronauer, Manuela Draeger, Lutz Bassmann – coi quali firmerà altri libri, senza tuttavia considerarli eteronimi di comodo. Questi nomi non sono modi diversi di chiamare se stesso o nascondersi al pubblico, bensì scrittori con una propria personalità, un proprio stile, una propria opera, figure distinte da Volodine anche se unite a Volodine dall’appartenenza a un collettivo ovvero a una stessa temperie, tanto che Volodine riterrà di parlare al plurale ogni qual volta si troverà a spiegare, in pubblico o nelle interviste, in cosa esattamente consistano il mondo e la temperie del post-esotismo.
Il termine nacque per scherzo nel 1991, in risposta a un giornalista curioso di sapere a quale genere letterario Volodine preferisse essere ascritto. All’epoca Volodine aveva al suo attivo la pubblicazione di quattro libri, nessuno dei quali gli sembrava rientrare tanto nella fantascienza quanto nell’avanguardia francese, sicché, per scrollarsi di dosso l’etichetta di scrittore inclassificabile, si inventò quella di scrittore post-esotico fantanarchico. Naturalmente non era uno scherzo privo di metodo. Sul finire del secolo, anzi del millennio, ci si sentiva posteri di qualunque cosa, della modernità, della storia, delle ideologie, orfani di un tempo esauritosi prima del tempo. Volodine sembrava però sentirsi postumo di qualcosa che non può sparire perché assente da sempre, l’esotico appunto, ciò che è massimante forestiero, così distante da suscitare una sorta di nostaglia anticipata. In effetti, da principio Volodine parlava di esotico anche perché pensava alle letterature di cui sono imbevute i suoi libri, letterature non francesi, tradotte, provenienti dall’America latina, dai paesi anglofoni, dal Giappone, dalla Russia. A partire dalla pubblicazione del suo primo libro, Volodine si spogliò dell’eredità culturale francese per intraprendere un percorso impossibile: anziché andare altrove, si prefisse di giungere dall’altrove. I suoi libri e quelli dei suoi compagni di strada sono post-esotici in quanto esempi di «una letteratura straniera scritta in francese», non più tradotta sebbene avventizia.
Nel 1998, con l’uscita per Gallimard del Post-esotismo in dieci lezioni, lezione undici, Volodine aggiunse un nuovo pezzo al mosaico: l’altrove da cui giungono i testi è una prigione situata in un luogo imprecisato, un luogo forse nemmeno terreno ma comunque devastato da una catastrofe. In essa sono rinchiusi rivoluzionari usciti sconfitti dalla loro battaglia contro le infamie del capitalismo, la sconfitta ha trasformato questi combattenti in scrittori. L’esistenza dei testi è precaria, marginale quanto quella dei loro autori: vengono tamburellati sulle sbarre delle celle, mormorati a un pubblico morto o assente. Nel principio del libro troviamo uno degli eteronimi di Volodine, Lutz Bassmann, agonizzante. Ci è presentato come l’ultimo portavoce del post-esotismo e in quanto tale viene intervistato da giornalisti che gli domandano del movimento cui appartiene, movimento le cui origini – apprendiamo nei capitoli successivi – affondano nello sciamanismo rivoluzionario e hanno prodotto una sconcertante varietà di sottogeneri che ha soltanto una vaga somiglianza con le letterature esistenti. In appendice al volume, dopo avere fatto la conoscenza di altri rappresentati del movimento e delle loro tecniche narrative, troviamo una lista di tutte le 343 opere post-esotiche di cui si abbia notizia. Molte sono opere pubblicate anche nel mondo reale da Volodine o da identità a lui riconducibili, vedi Angeli minori o Scrittori o Undici sogni neri. La tentazione di ricondurre tutto ciò alla mescolanza di realtà e finzione che ha marcato la fase terminale dello scorso secolo è forte, ma seppure sbocciato in epoca postmoderna, seppure frutto del disagio che quest’epoca ha generato, il post-esotico ha l’ambizione di collocarsi fuori del suo tempo. Forse, più che di mescolanza, sarebbe più giusto parlare di fluttuazione. Nell’incipit del Post-esotismo in dieci lezioni, lezione undici ci viene detto che Bassmann, come ogni altro scrittore del movimento, ha trascorso i suoi ultimi giorni tra la vita e la morte, dunque in uno stato di sospensione, in un limbo pre-morte o post-vita. È una condizione che troviamo anche in altre storie post-esotiche, se non in tutte.
I personaggi di Terminus Radioso, nella traduzione strabiliante di Anna D’Elia, si chiedono se non siano già morti e se lo chiedono quando la storia è appena agli inizi. Si sentono sulla frontiera della vita, presi tra la morte e il sonno. Qualcosa di analogo potrebbe dirsi riguardo al legame che queste storie hanno con la realtà o con il tempo. Sono sogni? Allegorie allucinate del presente? Predizioni immaginose di un futuro prossimo ventuto? Le storie di Volodine non sono una mescolanza di realtà e finzione né si prefiggono di raccontare il nostro tempo – il nostro passato prossimo – trasfigurandolo in una sorta di futuro anteriore. L’azione di Terminus radioso si svolge sì all’ombra di una Seconda Unione Sovietica che ha debellato il capitalismo; la desolazione radioattiva delle sue lande devastate da continue catastrofi fa sì pensare a Černobyl’, ma azione e desolazione sono anche governate da forze fluttuanti, da una sorta di indeterminazione quantistica che evocano un limbo dove nulla è fisso. Volodine ha più volte spiegato (o annunciato) che il post-esotico non è una corrente letteraria ma un edificio estetico in corso d’opera destinato ad articolarsi in 49 libri o «oggetti d’arte in prosa». L’ultimo di questi oggetti si chiuderà con una frase decisa da tempo – «Io mi taccio» – che aleggia nell’ultima battuta di Terminus radioso – «Aspetto la fine» – la cui struttura narrativa è plasmata fin nel computo totale delle battute dal 49 e dal 7, sua radice quadrata. L’ossessione di Volodine per questo numero discende dal Libro tibetano dei morti, dove, dopo il decesso si vaga appunto per 49 giorni prima di cominciare una nuova esistenza. Ed è qui che emerge il tratto saliente del post-esotismo, l’idea di pensare la scrittura ma anche la lettura come traversata di quella terra desolata e devastata che è sempre il presente, perché ciò che siamo è ciò che abbiamo perduto e forse anche cio che saremo.
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