Le chiesi quante possibilità di successo aveva un trapianto di fegato. Molte possibilità, disse lei. In percentuale? dissi io. Sessanta per cento, disse lei. Cazzo, dissi io, è pochissimo. In politica è la maggioranza assoluta, disse lei.
Per Roberto Bolaño, le possibilità non furono né tante né poche. Nel 2003, sul finire di giugno, afflitto da una insufficienza epatica, cominciò a sentirsi male e sputare sangue. Telefonò alla compagna di allora che lo raggiunse a casa in macchina ma non lo portò in ospedale. Fu Bolaño a volere andare altrove, a casa di lei, ovvero in un posto dove poter stampare un libro che aveva salvato su floppy disk. In ospedale andò il giorno seguente, il primo luglio, quando le sue condizioni peggiorarono in modo disperato. Vi morì due settimane dopo, nella speranza di un trapianto. Il manoscritto era per Jorge Herralde, fondatore e direttore della casa editrice Anagrama, e fu il suo libro primo a vedere le stampe postumo, anticipando di un anno l’uscita di 2666 malgrado quest’ultimo fosse da tempo oggetto di conversazione tra Herralde e lo scrittore. Al suo apparire, alcuni lo trattarono con sufficienza. Forse perché pubblicato quasi a ridosso della morte, sospettavano fosse stato assemblato in fretta, con quel che si era trovato nei cassetti. E in effetti, di primo acchito, la sua natura eterogenea può indurre a vedervi una raccolta di «esercizi irregolari di un maestro di acrobazia narrativa».
Il gaucho insopportabile – tornato «insopportabile» dopo essere stato «insostenibile», grazie alla nuova traduzione di Ilide Carmignani – comprende cinque racconti e altri due testi dall’andamento frammentario e divagante, scritti per altrettante conferenze. Gli stessi racconti sembrano fare a cazzotti, tanto sono diversi. Ce n’è uno scritto in versetti, alla maniera della Bibbia. Un altro, per la sua brevità, lo si direbbe più un appunto, un ricordo, che non un racconto. Un altro ancora è un rifacimento di un racconto di Borges. E poi un altro, ambientato in una fogna popolata di topi, che potrebbe essere il sequel di Giuseppina la cantante di Kafka e ha per protoganista un poliziotto, nipote della cantante e ovviamente topo anche lui. Infine, quella che è forse una storia di doppi e fantasmi, con uno scrittore argentino ossessionato dal sospetto che un regista francese abbia plagiato i suoi libri. È il racconto che meglio corrisponde al Bolaño più consueto, fermo restando che tutti, nel loro complesso, propongono un concentrato di temi tipici dello scrittore: il sesso praticato con prostitute o comunque in maniera occasionale, la violenza più bruta e immotivata, la poesia e i suoi irrequieti quanto spiantati praticanti. A essi si aggiungono temi troppo frequentati in letteratura per essere considerati specificità di Bolaño: la morte, e un disilluso quanto disperato bisogno di credere in qualcosa di trascendente. Va quasi da sé che tutti, sia i temi tipicamente bolañeschi, sia quelli esemplari dello scrittore tout court, sono presenti anche nelle due conferenze, le quali, poste non a caso in fondo al volume, hanno il sapore amaro di un commiato.
La consapevolezza al tempo stesso rabbiosa e affranta di trovarsi agli sgoccioli dell’esistenza plasma ogni frase. Il primo racconto aggiunge ai temi già menzionati quello della malattia esiziale, che Bolaño discute oscillando tra la sua condizione personale e considerazioni di ordine generale, chiamando in causa prima i poeti francesi dell’Ottocento e poi di nuovo Kafka. Lo strazio del testo consiste proprio in questa oscillazione costante e fatale, nella crudeltà quasi offensiva per cui ciò che in un contesto astratto appare accettatibile, se non addirittura una pacchia – come lo è la maggioranza assoluta in politica – una volta riportato al singolo individuo si riduce a un’inconsistenza irridente. La seconda conferenza riguarda, invece, lo stato in cui versa la letteratura. Il titolo, «I miti di Chtulhu», ne anticipa l’umore tenebroso. Se da un lato stanno gli scrittori il cui pregio maggiore è la loro leggibilità (quelli che vendono di più) dall’altro ci sono quelli che – vedi Ricardo Piglia di recente scomparso – possono ben poco contro la valanga del glamour. Bolaño constata con amarezza che gli scrittori attuali sono persone pronte a scalare l’Everest della rispettabilità, «gente che viene dalla classe medio-bassa che spera di finire i suoi giorni nella classe medio-alta» e per alimentare questa speranza è pronta a «rispondere di buon grado alle domande più cretine, sorridere nelle peggiori situazioni, fare la faccia intelligente, controllare la crescita demografica, ringraziare sempre». Bolaño conclude la conferenza, e dunque anche il libro, con una frase che frena qualunque oscillazione – «Tutto porta a pensare che non ci sia via d’uscita» – non prima però di vagheggiare un riscatto impraticabile: «Se potessimo crocifiggere Borges, lo faremmo. Siamo assassini timorosi, assassini prudenti».
Per uno scrittore dell’America Latina uccidere Borges equivale a uccidere Dio, non per nulla Bolaño parla di crocifiggere. Impresa impossibile, nella quale tuttavia lo scrittore cileno si cimenta: riscrive Il sud, ovvero quello che Borges considerava forse il suo racconto migliore. Quel «forse» messo da Borges sta a indicare non tanto un dubbio sul fatto che sia effettivamente il più bello, quanto il fatto che a noi spetta leggerlo come tale. In altre parole, ci dice quel che gli avrebbe fatto orrore esplicitare: che è un autoritratto ideale o, peggio ancora, un racconto autobiografico. Come Borges, il protagonista del Sud è un porteño diviso tra le origini europee e un’ascedenza creola. Come Borges, questo porteño diviso lavora in una biblioteca ed è un lettore. Come Borges, il bibliotecario si sente o vuole sentirsi profodamente argentino, il che non sarebbe affatto un problema se la sua anima europea di lettore non lo facesse sentire in obbligo di comportarsi come un vero argentino, cioè come un gaucho. In sostanza, come Borges, costui vive un conflitto tra letteratura e vita, e quando partirà per il Sud, dove ha conservato una tenuta del nonno materno, morto trafitto da una lancia indios, si sentirà in dovere di andare incontro anche lui a una fine argentina. Poserà il libro e afferrerà un coltello che in realtà non sa usare. Il gaucho insopportabile racconta la stessa storia, ma con un finale diverso. A morire non è l’uomo che vuole essere un gaucho ma il suo provocatore, che qui è non più un giovane della pampa ma uno scrittore dei tempi recenti, uno di quelli che a cinquant’anni hanno la faccia di un adolescente e sembrano creativi di agenzie pubblicitarie. Che Bolaño si sentisse estraneo a questa nuova genìa è evidente, ma sapeva di condividere la stessa società, lo stesso tempo. Sapeva, cioè, che – nelle vesti dell’assassino – gli era concesso soltanto di essere timoroso e prudente. Sapeva inoltre che «scopare è l’unica cosa che vogliono quelli che stanno per morire… È triste doverlo ammettere, ma è così». Come sapeva che «siamo pessimi a letto e probabilmente faremo un’altro passo falso». Può anche darsi che Il gaucho insopportabile non siail libro migliore di Bolaño, come taluni dicono, ma è il libro di un uomo che era arrivato a sapere. E per questo voleva che il suo editore lo avesse, perché si sapesse che era giunto a sapere. Si accomiatò con un’epigrafe timorosa e prudente, presa da Kafka: «Forse non abbiamo perduto così tanto, dopotutto», malgrado sapesse che non era vero.
L’effetto di disomogeneità lo fa senz’altro. Infatti, quando lo lessi la prima volta, pensai proprio che fossero testi eterogenei messi insieme alla rinfusa. Non ne conoscevo la storia editoriale. E non avevo colto le citazioni letterarie.
Il racconto del topo poliziotto mi lascia ancora senza parole, è stato come una illuminazione improvvisa: “è troppo tardi per cosa?” (cito a memoria) sono parole che non dimenticherò.