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Ka non si è mai occupato d’altro nella vita se non di poesia, non si è mai sposato ed è così triste da sembrare un personaggio uscito da un racconto di Checov, ma essendo appena tornato in patria dopo un lungo periodo di esilio politico in Germania, non sa rifiutare l’offerta di recarsi in veste di giornalista a Kars, sperduta cittadina dell’Anatolia orientale, per riferire in merito alle imminenti elezioni comunali e a una dilagante quanto misteriosa epidemia di suicidi femminili. Intorno a questo spunto, Pamuk costruisce l’affresco simbolico di un paese, la Turchia, il cui destino sembra essere quello di vivere in perenne sospensione tra due mondi, un piede verso la completa occidentalizzazione e l’altro incatenato a un passato levantino che fa sentire le sue ragioni con la voce esaltata del fanatismo religioso. L’intero corpo della sua opera narrativa ruota intorno al tormentato passaggio dall’epoca della guerra agli infedeli allo stato laico di oggi. Del resto il problema della modernizzazione ha segnato la storia della Turchia lungo tutto il ventesimo secolo. I momenti cruciali sono stati la cacciata dell’ultimo sultano e la successiva instaurazione della repubblica del generale Mustaf Kemal detto Atatürk, che impose negli anni Trenta una numerosa serie di traumatici cambiamenti, tra cui l’obbligatorietà del cognome e l’adozione del calendario e dell’alfabeto occidentali. Il tutto in un paese sterminato, cosmopolita in certe sue parti e spaventosamente arretrato in altre, abitato da gruppi etnici diversi e spesso in aspro conflitto tra loro. Di questo turbinoso processo di trasformazione in passato ci sono giunti solo echi lontani. Il rapporto sempre più difficile e drammatico con l’integralismo islamico ha però conferito un’attualità nuova alle complicate vicende turche fatte di scontri di classe, di terrorismi di vari colori, nonché di esecuzioni sommarie. Esiste infatti laboratorio migliore di quel tumultuoso spartiacque tra due e più mondi che è la Turchia, se si vuol tentare di capire fin dove è possibile esportare, e a quale prezzo, il cosiddetto modello occidentale?

Tutto ciò costituisce probabilmente una delle ragioni per cui l’opera di Pamuk è seguita con particolare interesse nel mondo anglosassone. D’altro canto lo stesso Pamuk è una sorta di ibrido. Proviene da un agiata famiglia di Istanbul, ha studiato in una scuola americana dove si insegnava tanto l’inglese che il turco, si è formato leggendo Virginia Woolf e William Faulkner e ha soggiornato per tre anni a New York a partire dal 1985. Fattori che hanno lasciato segni evidenti nel suo modo di scrivere e che — nonostante il grande successo di vendite o forse proprio per questo — lo hanno messo al centro di feroci critiche in patria. Nella fattispecie Neve ha fatto irritare tanto i turchi occidentalizzati che i più accaniti fautori di una restaurazione delle tradizioni islamiche. Capire perché non è difficile visto che Pamuk racconta il fenomeno Turchia nei termini di una gigantesca e quasi irrimediabile contraddizione. Una citazione da Conrad — «L’occidentale che è in me era turbato» — posta in epigrafe al romanzo fa però pensare che l’autore abbia inteso rivolgersi anche al lettore straniero. Non si può negare, in effetti, come l’occidentale che è in noi sia alquanto turbato dal modo in cui l’Islam ha adottato il suicidio quale uno strumento di lotta politica. La semplice eventualità di votarsi al martirio in nome di una guerra santa o magari solo per affermare il diritto di continuare a portare il velo — come avviene nel caso delle giovani donne di Neve — appare inaccettabile. Pamuk ribalta però i termini della questione. «È certo che il motivo del suicidio di queste ragazze è la loro eccessiva infelicità – dice uno dei personaggi del romanzo – ma se l’infelicità fosse il vero motivo di un suicidio, in Turchia la metà delle donne si ucciderebbe». E con ciò torniamo nella sfera delle evidenze che non si possono negare, perché è ovvio che un analogo ragionamento vale anche gli occidentali infelici. Dunque perché non prendere in considerazione — altra cosa che avviene in Neve — che il problema sia piuttosto un’epidemia contagiosa, una malattia più che una scelta dell’individuo?

La verità è che il tema del suicidio svolge una funzione meramente simbolica per Pamuk e che sia così lo confermano le coincidenze fin troppo esplicite di cui il romanzo abbonda. Un personaggio di nome Ka si reca nella cittadina di Kars, la quale cittadina si trova isolata dal resto del mondo a causa della neve; guarda caso, neve in turco si dice kar. L’atmosfera di metafisica sospensione in cui è situata Kars ricorda inoltre molto da vicino le piogge insonni che ingabbiano certi villaggi di Marquez o il paese «sprofondato nella neve» in cui giunge K. all’inizio del Castello di Kafka. A questo punto non resta che porsi una domanda: cosa si nasconde dietro il simbolo del suicidio? E poi un’altra: cosa turba davvero l’occidentale che è in noi? Rispettando un cliché consolidato del romanzo kafkiano, gli abitanti di Kars guardano il visitatore con estrema diffidenza. Tutti si chiedono per quale nascosta ragione sia venuto. Alcuni azzardano che sia una specie di agente en travesti, altri che sia stato mandato dalle forze occidentali con un non meglio precisato «incaricato speciale». Qualcuno, infine, pensa semplicemente che «è venuto qui perché è infelice». Ka è un poeta che non scrive un verso da anni. È un uomo di mezz’età che se ne frega della politica e non sa più se credere in Dio; è un uomo a tal punto inebetito dalla propria malinconia da assistere alle tragedie di Kars con assoluta e confusa indifferenza; è infine un uomo che cova «un profondo desiderio di innamorarsi» a priori, che pretende di risolvere tutto convincendo un’amica di gioventù — una donna che per lui è praticamente un’estranea — a sposarlo e seguirlo in Germania. Come abbia potuto ridursi così è presto detto: si è occidentalizzato. Ma dal momento che a Kars le persone «si uccidono a vicenda come animali e dicono di farlo per la felicità della città», Oriente e Occidente non costituiscono una risposta e l’unica cosa davvero certa in questo romanzo di stralunata bellezza è che la tristezza del mondo non conosce frontiere.

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