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Correva l’anno 1984 — il famigerato anno orwelliano — quando, nel Neuromante, William Gibson raccontò di una nuova dimensione che proprio a lui deve il suo nome. Il cyberspazio, il mondo dell’elettronica e della possibilità di immagazzinare, scambiare e, perché no?, rubare dati. All’epoca, l’internet che tutti conosciamo era di là da venire, ma l’idea che la nostra realtà si stesse tramutando in qualcosa di diverso e ibrido, metà uomo e metà macchina, era già nell’aria. Tant’è che nella definizione che Gibson ne dava, il cyberspazio era: «un’allucinazione consensuale che milioni di persone sperimentano ogni giorno». Il Neuromante raccontava le avventure di un individuo più allucinato di altri, un tale di nome Case che di professione fa il cowboy del cyberspazio ovverosia l’hacker. A soli ventiquattro anni, però, Case si ritrova con il cervello mezzo spappolato da droghe sintetiche, alcol e soprattutto dalla tossina che certe persone cui ha dato fastidio gli hanno iniettato nel cervello. Sicché vive in Giappone, senza uno yen in tasca negli alberghi-bara più economici, sperando di trovare il modo di rimettere in sesto la mente e tornare a fare il pirata di software. In altre parole, Case era il classico tipo dell’antieroe. Un personaggio che sembrava uscito da un romanzo hard-boiled degli anni Trenta e catapultato, chissà come, in un futuro prossimo venturo. Quel futuro patisce la patisce del più polveroso dei passati, il prossimo. Al suo apparire, però, le cose erano diverse e il Neuromante suscitò grande impressione. Fu subito chiaro a tutti che dopo quel romanzo la fantascienza non sarebbe stata più la stessa. A conti fatti, è occorso qualcosa di più di un semplice mutamento. Dopo quel romanzo, la fantascienza è praticamente scomparsa. È diventata obsoleta, se non morta. Gibson descriveva un futuro di città cadenti e decadenti, luoghi sporchi e malfamati che non avevano niente da spartire con le metropoli avveniristiche e luccicanti della fantascienza classica. Il futuro come rudere: questo era il mondo del Neuromante. Il suo indimenticabile incipit la dice lunga sul clima da terra desolata che lo ammantava: «Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione, sintonizzata su un canale morto». Diceva molto anche sullo stile di Gibson, un’inconfondibile e ipnotico incrocio tra Il grande sonno di Chandler e Nova Express di Burroughs.

Da bravo killer della fantascienza, Gibson si è progressivamente allontanato dal genere, cominciando a scrivere romanzi ambientati nel presente. A cominciare da Pattern Recognition. È il mondo che ben conosciamo, con le comunità tribali della Rete, il potere non più occulto delle multinazionali, l’impatto devastante dell’economia globale, l’apocalisse a puntate di un terrorismo senza frontiere. È il mondo dove il tempo è diventato un’entità a sé che si distende a macchia d’olio in ogni direzione modellando lo spazio fisico, sovvertendo la logica per cui il «dopo» deve necessariamente seguire a un «prima», rendendo obsoleta, ridicola e quasi impensabile qualsiasi idea, finanche solo filosofica, di hic et nunc. La morale per nulla velata del settimo romanzo di Gibson — senza dubbio la sua opera più raffinata — è tutta qui: Albert Einstein non abita più tra noi perché spazio e tempo hanno smesso di procedere a braccetto. Il primo sembra essersi smarrito per sempre lungo i mille sentieri del virtuale, mentre il secondo ha imboccato in solitudine il viale serotino e alquanto assonnato del reale. Qualcuno si domanderà cosa c’è di nuovo in tutto ciò. La dicotomia tra spazio virtuale e tempo reale non è forse il traballante fondamento su cui si è fondata la postmodernità più recente? E non è forse vero che da questo luminoso abisso se ne è cavato ben poco? Gibson non pare proporre nuovi rimedi. Coloro i quali sono alla ricerca di impasse alternativi, di vicoli ciechi che non siano quelli in cui si è imbottigliata tanta meta-letteratura, troveranno in Pattern Recognition una ennesima fonte di tedio e scoramento. L’autore non rinuncia a nessuna delle brillanti quanto prevedibilissime trovate con cui si è soliti rappresentare la vocazione al parossismo e agli eccessi della nostra epoca. Cosa dire, per esempio, di un romanzo dove si incontrano personaggi come Billy Prion, un cantante che si fa paralizzare la parte sinistra della bocca con il botulino in occasione delle prime date dei BSE, l’improbabile gruppo rock inglese di cui fa parte?

La scelta di Gibson è deliberatamente di basso profilo. Abbandona la fantascienza e accetta di misurarsi con i luoghi più comuni e visitati del presente: le comunità tribali che si danno convegno in Internet, il potere non più occulto delle multinazionali, l’impatto devastante dell’economia globale, l’apocalisse a puntate di un terrorismo senza frontiere. Il tutto tratteggiato con uno stile che sembra la caricatura di ciò che uno scrittore davvero alla moda non dovrebbe essere. I personaggi si muovono con la grazia di pupazzi meccanici, sputano sentenze che sembrano uscite dai biscotti della fortuna, fanno la spola tra Londra e New York trovando il tempo per una capatina a Tokyo o Mosca. La trama dà l’impressione di stare in piedi per grazia di un Dio particolarmente generoso e i colpi di scena — di fatto uno per capitolo — sorprendono meno delle interruzioni pubblicitarie nei programmi televisivi in prima serata. Insomma, tutto ciò che in linea di principio si dovrebbe evitare come la peste Gibson lo fa suo, rimanendo fedele ai gerghi più tipici della letteratura di genere, in particolare quello della spy-story alla James Bond. Ma in virtù di qualche imprevista alchimia, L’accademia dei sogni rivela una grana elegante, una scrittura corpuscolare capace di cogliere molti aspetti del tempo che ci è toccato in sorte. Protagonista di questo «mondo allo specchio» è una giovane donna di nome Cayce Pollard affetta da una patologica idiosincrasia per i marchi. A sei anni la semplice vista dell’omino Michelin bastava a farla vomitare. Da adulta si scopre a tal punto logofobica da limare i bottoni dei jeans pur di ricondurli all’anonimato. Questa esasperata ipersensibilità la rende una persona speciale, una sorta di sensitiva che le più importanti agenzie pubblicitarie pagano profumatamente per testare l’immagine di un prodotto. In termini più chiari, Cayce è quella che gli addetti lavori definiscono un coolhunter ovvero una «cacciatrice di tendenze». Tutto fila liscio fino al giorno in cui un miliardario belga, il classico tipo del tycoon, le offre l’incarico di scoprire chi è il misterioso artefice delle breve sequenze che da qualche tempo fanno la loro comparsa su Internet. Gli spezzoni sono diventati l’oggetto di un vero e proprio culto. Frotte di navigatori si riuniscono nelle chat per analizzare queste immagini nei più insignificanti dettagli e fare ipotesi sulla loro eventuale posizione all’interno di un film mai distribuito e di cui nessuno sa nulla. L’interesse commerciale della faccenda è evidente: le sequenze potrebbero essere state date in pasto alla gente con il semplice scopo di far credere che esista un film a cui ricondurle. Se così fosse, tanta devozione sarebbe rivolta ai frammenti di un prodotto che non c’è. Se così fosse, si tratterebbe di una geniale operazione di marketing.

La regola prevede però che un finto mistero sia come una matrioska, un mero involucro contenente altri involucri, una successione infinita di strati superficiali. Cayce si immerge dunque in un mistero ulteriore, quello di suo padre, dipendente in pensione della CIA dato per morto l’11 settembre 2001, giorno in cui, per ragioni poco chiare, si trovava dalle parti delle Torri Gemelle. E se il film caricato anonimamente nella Rete non offre alcuna certezza se non il miraggio di una narrazione, anche i complotti che partono dalla Guerra Fredda per arrivare alla Mosca di Putin possono offrire poco a parte l’illusione di un senso, la mera emanazione del bisogno di sentirsi in pericolo, il sogno di un ordine così perverso e superiore da mettere a tacere il frastuono bianco delle mode che passano solo per poi far ritorno in quel nostro confuso ammasso di dimensioni temporali dove il presente è già futuro e il passato muta continuamente. È stato osservato che Pattern Recognition è «un’ode alla paranoia», una sorta di remake di un classico del postmoderno: L’incanto del lotto 49 di Thomas Pynchon. Le similitudini non mancano, in effetti. Entrambi i romanzi hanno quale protagonista una donna che si improvvisa detective per indagare tra le pieghe di una rete di comunicazione alternativa: il sistema postale clandestino, nel caso di Pynchon; l’istigazione alla clandestinità propria di Internet, in quello di Gibson. Entrambi i romanzi, inoltre, non offrono soluzione. Il che non vuol dire che il complotto sia solo un sogno, ma solo che potrebbe esserlo. Perché se è vero che le teorie della cospirazione «servono a esaltare chi ci crede», non è affatto escluso che «persino i paranoici schizofrenici abbiano dei nemici». Chiedersi se il remake regga il confronto con l’originale sarebbe ingiusto. Gibson non ha preteso altro se non dare una nuova versione di una storia già nota, di aggiornare il passato per farne lo specchio dei tempi, di scrivere un romanzo trasparente e sfuggente come un motore di ricerca ma che valga comunque la pena di essere letto. E non c’è dubbio che sia riuscito nell’intento.

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