La serie che HBO ha tratto da Watchmen non stravolge il mondo immaginato da Alan Moore e Dave Gibbons, ma è comunque tutt’altra storia. Lo si può considerare un sequel posticipato di una trentina d’anni e solo accidentalmente collegato agli eventi narrati nel fumetto. Ci troviamo in un’America alternativa del 2019 in cui i poliziotti operano con il volto coperto, alla maniera tipica dei supereroi, vivendo una doppia vita, nascondendo al mondo qual è il loro vero lavoro, la battaglia che combattano contro il Settimo Cavalleggeri, un gruppo di suprematisti bianchi anch’esso dotato di una sua maschera. Siamo soltanto alla prima puntato, ma dai commenti che si leggono in giro, i fan più intransigenti lo hanno già bocciato. «Non è Watchmen, ma un altro tradimento di Watchmen» dice uno riferendosi ovviamente al film del 2009. «Watchmen solo di nome» dice un altro. Nei crediti finali compare soltanto il nome di Dave Gibbons, il disegnatore. Quello di Alan Moore, il vero creatore, è invece assente. Ciò non significa che anche per lui questa serie sia un tradimento. Il suo nome era assente anche dai crediti dei film. Non c’era ragione di stupirsene allora, non c’è ragione di stupirsene adesso. Il suo dissenso non è rivolto agli esiti dei due adattamenti. Dissente per principio. Sem Cacciato da scuola a sedici anni perché sorpreso a spacciare Lsd e autoproclamatosi mago al compimento dei quaranta, questo particolare tipo di gentleman inglese, la cui capigliatura inquieta lo fa più somigliante a Rasputin che al classico lord, ha manifestato più volte il suo acceso disprezzo per l’industria cinematografica, colpevole, a suo dire, di avere annacquato il nostro immaginario. Schifato dall’assioma per cui quel che funziona in forma di romanzo è destinato a far faville sul grande schermo, Alan Moore si è fatto un punto di concepire fumetti impossibili da replicare in televisione, al cinema e in qualunque altra forma di intrattenimento più o meno interattiva. Gli è andata male se si considerano i numerosi adattamenti per il grande schermo di cui è stata oggetto la sua opera. È riuscito a meraviglia nell’intento se si guarda invece all’impatto specifico che essa ha avuto nel mondo dei comics, per qualcuno paragonabile a quello della bomba atomica sui destini di Hiroshima. Di tutte le sue creazioni, Watchmen è quella più legata allo speciale universo delle vignette e dunque anche che più ha da perdere una volta catapultata altrove.

Alan Moore ritratto da Charles Burns
Per stare alle parole di Moore, la sua miniserie a fumetti è partita da «dove George Orwell aveva terminato». E non soltanto perché il progetto ha preso forma nel 1984 per poi essere pubblicato tra il settembre 1986 e l’agosto dell’anno seguente. L’idea di partenza era di costruire un’ucronia interna al mito specificamente fumettistico dei supereroi. Moore si era immaginato un pianeta alternativo, una sorta di seconda Terra, da usare quale laboratorio per ipotizzare come sarebbe stato il nostro mondo se i supereroi fossero esistiti realmente. Come avrebbe reagito davvero la gente alla comparsa di individui mascherati dotati di poteri eccezionali? Sarebbero nate sette religiose dedite al loro culto? In che modo sarebbero stati descritti dai mezzi d’informazione? Che tipo di atteggiamento avrebbero tenuto i politici nei loro riguardi? In parte, erano questioni su cui gli autori di comics avevano già fantasticato. Spiderman, per esempio, conta tra i suoi nemici il direttore di un quotidiano che non perde occasione per diffamarlo e dipingerlo come uno spregevole criminale. E non erano mancate nemmeno sporadiche apparizioni negli albi di importanti personalità, a cominciare dai vari presidenti statunitensi. Si era però sempre trattato di commistioni marginali che di fatto lasciavano il mondo reale così com’era. Anche le minacce che i supereroi erano chiamati a combattere sembravano non mutare di una virgola il corso della Storia. Debellato il pericolo, sconfitto il cattivo di turno, tutto ritornava alla condizione di partenza. C’era una spiegazione pratica per questo, in gergo chiamata continuity. Gli editori che pubblicavano le storie dei supereroi avevano ordito un universo complesso, popolato da una moltitudine di personaggi, ognuno con le proprie avventure ma il cui destino era intrecciato a quello degli altri. Se in un determinato albo un certo supereroe avesse impedito l’assassino di John F. Kennedy se ne sarebbe dovuto tener conto per tutti i numeri a venire di tutte le collane in qualche modo legate al supereroe in questione, dando vita a un universo parallelo dove forse Lyndon Johnson non sarebbe mai diventato presidente e l’America non avrebbe mosso guerra al Vietnam o non sarebbe mai sbarcata sulla Luna o chissà cosa. Se poi eventi simili si fossero verificati al ritmo di uno per albo nel giro di pochi mesi ci si sarebbe ritrovati con un mondo completamente diverso dal reale nel quale il lettore avrebbe stentato a identificarsi. A questo andava poi aggiunto l’inconveniente di gestire e coordinare una storia alternativa disseminata in decine di collane cui collaboravano molti sceneggiatori. Si imponeva dunque che al termine di ogni singola avventura le cose tornassero il più possibile come erano all’inizio così da non turbare la continuità delle varie collane.
La tentazione di guardare al di là di tali seccanti limitazioni era però troppo forte perché Moore potesse resistervi e concepì una serie basata sul presupposto che un mondo reale abitato da supereroi sarebbe molto diverso da quello descritto nei fumetti. Il titolo Watchmen viene da una nota frase di Giovenale — «quis custodiet ispos custodes?», chi controlla i controllori — e serve a connotare la figura del supereroe da una prospettiva inedita, quella dei vigilanti, del sedicente eroe che sostituendosi a giustizia e forze dell’ordine pone gli stessi inquietanti interrogativi che prospetta una città pattugliata da ronde di privati cittadini. Tranne uno, i giustizieri di Moore non sono dotati di poteri particolari, non volano, non diventano invisibili, non sono duri come l’acciaio. Quel che di fatto hanno in comune coi classici supereroi sono soltanto i costumi. Ma una maschera indosso a un uomo che combatte menando le mani come un comune essere umano ha un sapore un tantino ridicolo e puzza alquanto di nevrosi. I supereroi di Watchmen non brillano infatti per simpatia, hanno un sacco di turbe mentali e creano non pochi grattacapi alla polizia, tant’è che alla fine vengono dichiarati fuorilegge. Il lettore fa la loro conoscenza quando sono già stati messi in pensione, in un America anni ’80 dove Nixon è ancora presidente e il Vietnam è stato sconfitto. L’intreccio è di notevole complessità e si dipana con una molteplicità di strategie narrative. Parodie e allusioni abbondano. È un trionfo di citazioni di ogni sorta. Per apprezzare a pieno quello che viene considerato il primo esempio di graphic novel e che il Time ha inserito tra i 100 romanzi più importanti del secolo, bisogna masticare di cultura popolare, filosofia, letteratura, musica, essoterismo, poesia e molto altro ancora.
A ricavarne un paio d’ore di pellicola ci aveva già pensato all’epoca Terry Gilliam, salvo rendersi subito conto che questo densissimo materiale era «infilmabile». Ovviamente tutto si può fare, incluso affidare la parte di Mickey Mouse a un topo in carne e ossa. Watchmen è però una parodia postmoderna, e in quanto tale vive e si alimenta degli specifici codici espressivi dei comics. In altre parole, è un gioco di specchi e ribaltamenti, è un meta-fumetto. La tormentata psicologia da reduce dei suoi eroi mancati è il riflesso del mito popolare del supereroe. La sua atmosfera retrò — vagamente fascitoide, tipicamente anni Ottanta — si esalta nei disegni accurati ma affatto stereotipati di Dave Gibbons. È un’opera il cui straordinario carattere innovativo emerge solo da un lettura accurata, perché a uno sguardo distratto la sensazione è quella di trovarsi per le mani un comunissimo albo di supereroi: i personaggi hanno mascelle quadrate e anatomie legnose, la scansione di nove vignette per pagina è tipica di quel genere di fumetto. Il contenuto è rivoluzionario ma lo stile è mimetico, riproduce in modo mirabile quello della cosiddetta Silver Age dei comics americani. Strappare Watchmen alla bidimensionale quadricromia della carta stampata è come raccontare la storia di Cristo eliminando la crocifissione. Superman fu creato da una coppia di ebrei, e come l’ebreo Gesù giungeva sulla Terra dall’alto dei cieli per salvare un’umanità oppressa dal male. Quando comparve nelle edicole, sul finire degli anni Trenta, parlava ai sopravvissuti della Grande Depressione. Originario del pianeta Krypton, l’uomo di acciaio era a suo modo un immigrato e dunque il portavoce perfetto dell’ideale rooseveltiano del New Deal. Un esercito di disperati si aggirava per le strade di una nazione in cerca di riscatto, una nazione convinta che il bene comune si realizzi con l’affermazione del singolo. Chi meglio di un supereroe esprimeva lo spirito di una società che, nata senza classi, prometteva a chiunque di essere artefice del proprio futuro? Nel giro di appena un anno, il nuovo personaggio vendeva più di un milione di copie al mese. Se Superman e la vasta accolita di suoi discendenti sono ben presto diventati il fenomeno distintivo dei comics è proprio perché, nel bene e nel male, incarnano il Sogno Americano, ed è a dir poco emblematico che a decostruire il loro mito specificamente fumettistico sia stato un europeo che poco ama la cultura del nuovo mondo e le sue hollywoodiane celebrazioni.
Divagazione conclusiva a margine. Figlio del capolavoro di Alan Moore può ritenersi un romanzo italiano risalente a una decina di anni. Lo ha scritto Marco Mancassola e si intitola La vita erotica dei superuomini. Descrive una America di inizio terzo millennio dove gli eroi — e con loro forse anche il Sogno di un’intera nazione — sono incanutite reliquie del passato, persone che hanno conosciuto tempi migliori e debbono fare i conti con la mestizia e i patetismi di cui è lastricato il viale, molto umano e poco super, della vecchiaia. Batman è morto in circostanze scabrose. Reed Richards, ex capo dei Fantastici 4, è un attempato consulente governativo che sbava dietro a un’astronauta che potrebbe essere sua figlia. Mystique, la mutante dalla pelle bluastra, è diventata una comica televisiva con spaventose carenze affettive. Muovendosi sulla falsariga di Watchmen e con lingua trasparente, Mancassola tesse un presunto complotto teso a togliere di mezzo queste vecchie glorie. Naturalmente è solo un pretesto per raccontare altro. La vita erotica cui fa riferimento il titolo è la storia dell’ordinario decadimento che tutti i corpi sono condannati a conoscere, anche quelli straordinari dei supereroi. L’erotismo è per eccellenza la dimensione dove l’intimità incontra la vitalità, dove una persona può conoscere la massima esaltazione e al contempo le più cocenti mortificazioni. È lo spazio in cui ci si può sentire in perfetta simbiosi con un altro organismo e simultaneamente sperimentare la più assoluta delle solitudini. «Per amare bisogna un poco umiliarsi» considera il Mister Fantastic attempato del romanzo di Mancassola. Al fondo di questa umiliazione c’è il corpo, questa macchina che la nostra società vorrebbe sempre più efficiente e inossidabile, questo corpo che vorremmo sempre super, immune ai guasti del tempo e allo sbiadire dei miti e dei sogni.