All’apparizione quasi simultanea nelle sale italiane di Parasite e Joker si è presto diffusa l’opinione – in effetti, più un abbaglio che un’opinione – per cui i due film, malgrado agli antipodi per molteplici aspetti, sono assimilabili perché indicherebbero un ritorno della lotta di classe. In entrambi i casi i protagonisti sono poveri, individui posti nei gradini più bassi della scala sociale che cercano un contatto ravvicinato con persone molto ricche, contatto che degenera in uno scontro fisico dagli esiti mortali. Peccato che in entrambi i casi il povero non pensi affatto di combattere il ricco; lo scontro è quasi un incidente di percorso, qualcosa di non previsto e comunque estraneo all’intento iniziale del povero: essere accolto in casa del ricco, al punto di spacciarsi per ciò che non è, rinnegando di fatto se stesso. Che nel povero di Joker vi sia forse una buona fede perché convinto di essere figlio del ricco cambia poco la sostanza: in maniera più o meno consapevole, tanto l’Arthur Fleck di Joker quanto la famiglia Kim di Parasite sono poveri che praticano l’impostura per farsi adottare dai ricchi. La voglia di rivalsa che li anima non li porta a odiare e disprezzare il ricco, a considerarlo un nemico, ma ad ammirarlo, a volergli bene perfino, e proprio per questo, anziché pianificare di eliminare il ricco e prenderne il posto, gli chiedono di essere accettati nella sua bella casa. È lotta di classe questa? Per lo spirito dei nostri tempi forse sì, ma negli anni in cui era in corso una vera lotta di classe un simile atteggiamento sarebbe parso una bestemmia. Quanti sostengono che in un film come Parasite sia ravvisabile un ritorno della lotta di classe dovrebbero ripensare a ciò che diceva Mario Carotenuto nello Scopone scientifico di Luigi Comencini, segnatamente nella scena in cui lo squattrinato professore spiega alla famiglia di Peppino i rudimenti della lotta di classe: «Chi è ricco, chi è potente non può comprendere le ansie, gli affanni dei poveri. Lo stesso Omero, che voi ragazzi studiate in questa vostra scuola di merda, diceva che mentre gli uomini lottano, combattono, vivono le loro tragedie, gli dèi nell’Olimpo si comportano come esseri frivoli, crudeli, capricciosi».
In quel film, girato in anni non sospetti quanto a lotta di classe, le ansie e gli affanni proposti allo spettatore erano appunto quelli della famiglia di Peppino, uno stracciarolo che insieme alla moglie a i figli attende trepidante il ciclico arrivo di una vecchia americana proprietaria di una stupenda villa che domina la lercia valle di una borgata di baracche. Ogni volta che la vecchia torna in città, invita Peppino e la moglie nella sua villa per giocare a scopone scientifico. La coppia si agghinda per bene e si inerpica sulla collina, con la speranza di vincere e spennare la vecchia, che ovviamente ha invece sempre la meglio, e non tanto perché sia più abile di Peppino e sua moglie, quanto perché più cinica, più insensibile agli affanni altrui. Peppino e la moglie perdono perché, diversamente dalla vecchia, hanno un cuore e sebbene la loro motivazione sia in teoria più forte, nei fatti si lasciano dominare dai sentimenti. «E noi je volemo bene a sta vecchia. Ce semo pure affezionati» dice la moglie di Peppino, una stupenda e sofferente Silvana Mangano, sostenuta con un «Eh no» dallo stracciarolo, un cisposo e irrimediabilmente spaesato Alberto Sordi. Ed è proprio a questo punto che il professore impartisce una lezione fondamentale, rimproverandoli per la loro debolezza imperdonabile: «Perché come fate a vince la guera se durante le battaglie ve affezionate ar nemico?»
Il nocciolo della vera lotta di classe è tutto qui: il povero non può volere bene al ricco, se davvero vuole prenderne il posto o ridistribuirne in misura consistente il patrimonio. Parasite ripropone lo stesso paesaggio dello Scopone scientifico, la stessa metafora dell’Olimpo, solo ampliata su scala metropolitana. Il ricco vive in alto come gli dèi antichi, il povero in basso come si conviene ai comuni mortali, e più si scende nella scala sociale più la dimora è al livello del mare, se non sotto. I Kim vivono non soltanto in un quartiere povero, nella zona bassa della città, ma in un seminterrato la cui unica vista sul mondo è una stretta finestra attaccata al soffitto che affaccia sulla strada dove vengono a pisciare gli ubriachi. Vivono così in basso, i Kim, che devono spostarsi per casa coi telefoni alzati, rasenti al soffitto, per connettersi in maniera parassitaria al wifi del piano di sopra. Nella straordinaria sequenza iniziale, con pochi tocchi, Joon-ho Bong ci chiarisce subito chi sono i Kim e qual è il loro posto mondo, ma soprattutto ci viene mostrato che i suoi poveri non sono i poveri di Comencini. Il povero di ieri era povero perché non aveva poco o niente. La baracca dello stracciarolo era spoglia, a parte un tavolo e qualche sedia, solo il televisore e il frigorifero rendono meno indigente l’esistenza della sua famiglia; ma siamo già negli anni Settanta, il boom economico e la scoperta del benessere diffuso sono ormai alle spalle e non basta certo un paio di elettrodomestici per non sentirsi straccioni. La casa dei Kim è invece stracolma di oggetti; è così piena di roba che ci si muove a fatica. Molte di queste cose sono superflue e anche in questo il povero di Parasite segna un’altra diversità rispetto a quello di Comencini, che conosceva soltanto l’angustia di ciò che è essenziale e primario. Essendo poveri del nostro tempo, i Kim dispongono naturalmente di smartphone. Sembra un’ovvietà eppure quante persone puntano oggi il dito contro i migranti usando proprio il telefono quale prova di un fittizio stato di necessità? Lo sentiamo ripetere spesso finanche da alcuni politici: «Hanno telefoni di marca, telefoni costosi», malgrado tutti oggi abbiano un telefono e i telefoni siano tutti di marca e costosi, quantomeno in teoria. Vediamo un disperato con un telefono e diciamo no, tu noi sei un disperato, non sei povero: hai un telefono. Determiniamo la povertà secondo parametri vecchi, quando invece la povertà è mutata e, rispetto al passato, si è fatta più insidiosa, diffusa, nascosta. Io stesso non saprei come definirmi. Per come vivo, non mancandomi nulla di essenziale, facendo ciò che in fondo amo fare, non dovendomi alzare alle cinque del mattino e mettermi nel traffico o prendere un treno affollato per raggiungere un posto di lavoro, non mi sento affatto povero, anzi mi considero un privilegiato. Talvolta, però, quando nei telegiornali passano i servizi sulle condizioni degli italiani, sulle ultime ricerche dell’Istat, vedo il mio reddito oscillare tra quello dei cittadini cosiddetti a rischio di povertà e quello dei poveri in senso stretto, e allora qualche dubbio mi viene, l’angoscia sale e mi dico sì, in effetti sono a rischio povertà se non povero; e tuttavia non mi paragonerei mai ai ragazzi arrivati per mare dal Senegal che elemosinano davanti al supermercato dove faccio la spesa, malgrado smanettino con telefoni più nuovi e, almeno in teoria, più costosi del mio.