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«L’acqua mi ossessiona», questo l’incipit che Olivia Laing sceglie nel suo libro di esordio per andare dritta al punto, ricordando un po’ la strategia con cui l’Ismaele di Moby Dick rimedia alla malinconia: prendere il mare per vedere la parte del mondo coperta dalle acque. È tuttavia alle parole di un poeta polacco, Czeslaw Milosz, che l’autrice inglese preferisce rifarsi nell’introdurre i motivi della sua ossessione: «Quando fa male, torniamo su certi fiumi». Olivia Laing traversava una crisi personale quando, nella primavera del 2009, si decise all’escursione da cui è scaturito Gita al fiume (traduzione di Francesca Mastruzzo e Giulia Poerio). Aveva perso prima il lavoro e subito dopo, «per pura negligenza», l’uomo che amava. Che cercasse sollievo in un corso d’acqua dolce colloca tuttavia la sua esperienza su un piano alquanto distante dallo spirito con cui certi anime scure dei romanzi si imbarcano su una nave. Mari e laghi hanno vastità senza direzioni, che li rendono deserti vivi e tumultuosi i cui abissi oscuri spesso nascondono mostri. Chi si inoltra nelle distese equoree, perché in cerca di risposte o bisognoso di placare un demone, si predispone a sfidare l’ignoto e in fondo non cerca se non una proiezione del suo smarrimento, del suo vuoto interiore, per battersi con esso fino all’ultimo sangue.

Gita al fiume: Un viaggio sotto la superficie (La cultura) eBook: Laing,  Olivia, Mastruzzo, F.: Amazon.it: Kindle Store

Diversamente da mari e laghi, «i fiumi hanno una destinazione e la certezza del loro tragitto ha qualcosa che li rende molto rilassanti, specie per coloro che hanno perso la fiducia nella loro meta». L’Ouse, il fiume che Laing si proponeva di esplorare seguendo un percorso di sentieri e passeggiate era lungo appena ottantaquattro chilometri e non si trovava all’altro capo del mondo, bensì nei luoghi in cui lei era nata e cresciuta, l’Inghilterra del sud. «Nasceva in un boschetto di querce e noccioli non lontano da Haywards Heath, tuffandosi tra rapide gole e increspature nelle antiche foreste del Weald, attraverso le Downs, a Lewes, per poi confluire nelle acque bituminose della Manica a Newhaven, da dove salpano i traghetti per la Francia». Un piccolo fiume, sconosciuto ai più, salvo forse agli appassionati di Virginia Woolf. Fu infatti nelle acque dell’Ouse che l’autrice di Gita al faro – cui Laing fa ovviamente il verso nel titolo – si lasciò annegare con le tasche del cappotto riempite di sassi. Il suo fantasma riaffiora di continuo in queste pagine, ma sarebbe sbagliato parlare di un libro su Virginia Woolf. È piuttosto un libro con Virginia Woolf, che sembra qui svolgere una funzione di spirito guida, ritornado per associazione e definendo temi e umori delle riflessioni peraltro erratiche e variegate che accompagnano Olivia Laing nella sua passeggiata. Un prato invaso da api al lavoro rievoca prima ricordi d’infanzia, poi la riflessione di natura «insolitamente sessuale» che l’alveare di Leonard Woolf ispirò a Virginia: «Le api scattano e pungono in un lampo, come frecce di desiderio». Le visioni provocate dalla luce calda e accecante della mezza estate diventano invece un’occasione per soffermarsi sulle allucinazioni sensoriali di cui la scrittrice soffriva, come pure i personaggi dei romanzi. Procedendo di questo passo, le apparizioni di Virginia convocano a loro volta altre cose, spesso storie di uomini funestati da un destino avverso come quella di Gideon Mantell, ostetrico e geologo, che per primo scoprì tracce dell’iguanodonte sempre nelle vicinanze dell’Ouse. La congerie di stimoli e considerazioni è tuttavia meno raminga di quel che appare: un viaggio sotto la superficie, recita non a caso il sottotitolo. Peraltro, la tortuosità del cammino è determinata più dalle circostanze che non dalla volontà di perdersi, alla maniera di un flâneur nei labirinti dei centri urbani. Civiltà e filo spinato delle recinzioni hanno impedito a Olivia Laing di esplorare liberamente le sponde dell’Ouse, imponendole un itinerario fatto di deviazioni che si riverberano nel flusso dei pensieri, proprio come le asperità del paesaggio obbligano un fiume a una discesa arabescata malgrado la sua meta sia chiara e definita.

Del resto, il movimento cercato non è in orizzontale: se gli uomini alla Ismaele solcano i mari in superficie e vi finiscono dentro per sventura e maledizione, Laing procede avendo quale stella polare le metafore con cui Virginia Woolf descriveva il processo della scrittura: tuffarsi, essere sommersa, immergersi. E questo immergersi è per lei anche un insinuarsi «sotto la superficie dell’universo quotidiano», un salire «sulla cresta dei sogni» scrollandosi di dosso l’aria di tutti i giorni, scavalcando i fili spinati che la allontanano dalla sponda del fiume. Nel capitolo centrale di Gita al faro, il passare degli anni riduce in rovina una casa, la natura ne prende possesso, le rondini nidificano in salotto, finché il decadimento non si ferma e arrivano muratori, domestici e servitori per ristrutturare e pulire l’immobile devastato, in una grande battaglia tra la pulsione devastante di una natura che tutto fagocita e quella umano all’ordine, la pulizia, il costruire. Prima che l’ordine torni, quando la casa è a un passo dallo sprofondare in un abisso di tenebra, Woolf elenca le creature selvatiche che vi si sono rifugiate: è in questo passaggio la bussola per orientarsi nel romanzo di Olivia Laing. Per lei, infatti, quella casa ormai sul punto di sparire e abitata dalla natura è un «paesaggio più rasserenante delle riparazioni successive, perché sembra indicare che perfino qui, sull’estremo limite del caos, qualcosa resiste»

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