La prima volta che ho sentito uno scrittore di narrativa rivendicare come un punto di merito il suo disinteresse per ciò che scrivevano gli altri narratori è stato nel 1999. Ero in piscina, nello spogliatoio della piscina per essere precisi, e mentre tiravo fuori dalla borsa l’armamentario del nuotatore, tra un accappatoio e una cuffia, spuntò un mattone di molte pagine che attirò l’attenzione dello scrittore, nuotatore anche lui. Che leggi? Senza rispondere gli allungai il libro, pensando potesse interessargli dare un’occhiata. Appena vide che si trattava di Underworld di Don DeLillo fece una faccia schifata. Non per DeLillo in sé. Ho smesso di leggere romanzi, disse col tono di chi evidentemente pensava di essere assurto a uno stato superiore ovvero trattandomi da inferiore perché perdevo ancora tempo dietro ai romanzi. Leggo solo saggistica ormai, aggiunse. Non ricordo come proseguì la conversazione né se proseguì. Ricordo solo di avere pensato, Perché scrivi ancora romanzi se hai smesso di leggerli? Ma non sono sicuro di averglielo detto. Probabilmente no. Del resto, oggi non la penserei nemmeno, una simile frase. E non perché dopo tanti anni abbia smesso anch’io di leggere romanzi; non sono arrivato a quel punto. Non la penserei perché sono giunto a capire che è possibile scrivere un buon romanzo anche senza leggere la narrativa altrui. Può capitare. In casi eccezionali, ma capita. Senza contare che ormai la questione si è spostata: dal non leggere si è passati – incredibile ma vero – al non scrivere. Non al non scrivere in senso assoluto, ovviamente, bensì al non scrivere semplice narrativa. È nato così un nuovo oggetto letterario, il cosiddetto libro ibrido, il libro in cui l’autore smette i panni del mero narratore e disquisisce, a volte parlando di sé e delle proprie esperienze, a volte parlando di fatti d’altri, di persone e vicende più o meno note al lettore. Non meno frequente, se non predominante, è poi il caso dello scrittore che mescola più piani, il pubblico e il privato, i fatti d’altri e quelli propri, magari con qualche invenzione.

A ben guardare, malgrado venga rappresentato come un scrivere nuovo, più consono ai tempi e più meritevole di considerazione, questa letteratura raminga e trasversale, solo apparentemente antinarrativa, non è affatto una novità. Forse non è vecchia quanto il cucco, come si dice dalle parti mie, ma di sicuro è più vecchia del romanzo. E forse, per rendere evidente la discendenza, anziché cercare artificiose definizioni come romanzo ibrido, bisognerebbe provare a chiamare questi libri per ciò che in realtà sono, finti diari ovvero diari pubblici. E se proprio la parola diario dovesse risultare indigesta o riduttiva, si potrebbe optare per qualcosa di più neutro, finti quaderni ovvero quaderni pubblici. In ogni caso, comunque li si voglia chiamare e giudicare, questi diari pubblici restano oggetti problematici. Per definizione, un diario non può essere né finto né pubblico, e se ci si cimenta in questo genere di scrittura, magari anche con autenticità, bisogna prendere atto di una conseguenza che invece resta poco discussa, se non in termini elusivi. La conseguenza è questa: il diario pubblico implica necessariamente la degradazione dello scrittore a persona. Affinché non sorgano equivoci, la parola «degradazione» è qui intesa in senso lato o, per meglio dire, tecnico e comunque non spregiativo. Va da sé difatti che non c’è nulla di male o inferiore nell’essere persone. Come va ricordato che scrittori e scrittrici non sono da considerarsi migliori del prossimo semplicemente perché scrivono, fosse anche bene. Quando dico che questa degradazione dello scrittore a persona va intesa in senso tecnico mi riferisco alle conseguenze implicite ovvero alla perdita di autorevolezza cui va incontro chiunque smetta i panni del proprio ruolo, non soltanto gli scrittori. Per restare a questi ultimi, visto che di costoro parliamo, ci si può degradare a persona in tanti modi, concedendo interviste, facendo presentazioni, stando sui social. Ma finché ci si limita a queste pratiche, la degradazioni è parziale, inerente a chi scrive e non ai suoi libri, malgrado succeda pure che tanti lettori rinuncino a leggere un libro proprio perché, grazie a interviste presentazioni e post, lo scrittore si è rivelato una brutta persona. L’aspetto problematico dei quaderni pubblici è che la degradazione diventa, prima ancora che una conseguenza, la premessa del libro e della sua eventuale lettura. Per ridurla in termini spicci, quando compriamo un romanzo di Simenon compriamo comunque un romanzo, cioè ancora e soltanto un libro, anche nel caso in cui ci sia noto che l’uomo Simenon non si è sempre comportato da brava persona. In tanti fra noi lo comprano pur non sapendo niente di lui ovvero soltanto perché scrive bene. Se invece compriamo Carrère, per fare l’esempio probabilmente più immediato, prendiamo l’intero pacchetto, il libro di Carrère e la persona Carrère. Non tutta la persona, ovviamente, e forse neanche la «vera» persona, visto che Carrere può girarsela e rappresentarsi come vuole. Ma questo non vale forse anche fuori dai libri? In quale mondo reale le persone si mostrano per quello che sono davvero, senza nascondersi o migliorarsi? E comunque agli occhi di noi lettori poco cambia: leggendo La vita come un romanzo russo accettiamo di convivere con Carrère e qualora la persona Carrère dovesse piacerci poco ma seguitassimo comunque a leggere, gli avremmo di fatto perdonato l’essere una brutta persona. Lo perdoniamo per come scrive. Sembra niente di che, eppure lo stiamo assolvendo.

E Simenon?, diranno subito tanti lettori. Non abbiamo assolto anche lui? Non proprio. I suoi romanzi non ci chiedono niente, semmai ci interrogano. Forse anche Carrère ci interroga, ma di sicuro ci chiede. Come chiede chiunque tra noi si cimenti in un diario, anzi un quaderno pubblico di qualche tipo. Vale per molti autori, alcuni anche a noi più vicini. Vale per Trevi quando scrive Sogni e Favole o per agli assalti sferrati da Genna a questi tempi devastati e vili. Vale per La straniera di Durastanti e Città sommersa di Barone, anche se questi due ultimi esempi sono forse, almeno per il lettore e per ragioni che non sto a dire, meno compromettenti. E vale infine anche per il sottoscritto quando scrive Il dono di saper vivere, tanto per chiarire che mi metto anch’io tra i degradati e non punto il dito. Ora, l’aspetto davvero problematico di questi quaderni pubblici non siamo noi in quanto possibili brutte persone. No, l’aspetto problematico e ambiguo è che, con questi nostri quaderni pubblici, prima ancora di chiedervi di chiudere un occhio sulla nostra brutta persona, vi chiediamo di assolverci per la nostra incompetenza. Assolverci perché scriviamo di Caravaggio o di un omicidio efferato senza davvero saltare il guado, vale a dire scrivendo libri di mezzo, che spesso deviano verso quel saggio che ormai preferiamo al romanzo, non rinunciando però alla protezione di quel porto franco che è ancora la letteratura. Questa problematicità non vale soltanto per chi scrive ma anche per chi legge. Pure a chi legge questi quaderni si potrebbe infatti chiedere ragione delle loro scelte: Perché non passi direttamente ai saggi veri, se davvero consideri superati e inutili i romanzi? Anche questa sembra una domanda da niente, secondaria, eppure è in essa che va cercato cosa stiamo diventando, la nostra condizione psichica, il rapporto che intratteniamo con ciò che ci circonda, che siano gli altri o la cosiddetta realtà. Prendiamo un caso recente e particolarmente emblematico, La città dei vivi di Nicola Lagioia. Anche chi ha espresso riserve, si è dichiarato comunque agganciato giudicandolo perlomeno il suo libro migliore. E in effetti delle differenze vi sono, rispetto ai precedenti romanzi; differenze che non riguardano soltanto l’avere scelto per tema un fattaccio reale, ma anche il modo di scrivere, lo stile. Basta tuttavia lo stile a spiegare perché in tanti abbiano detto di non essere riusciti a staccarsi da quelle pagine? Fatti salvi i meriti del libro, La città dei vivi riesce alla perfezione in qualcosa che chiunque scriva un quaderno pubblico tenta di attuare: dare al lettore la sensazione che aprire il libro e immergersi nella sua lettura non costituisca un trauma; che quel libro sia cioè un leggero declivio, un proseguimento della realtà o, per meglio dire, visto che realtà non significa nulla, un proseguimento del modo in cui il lettore è abituato a frequentare la realtà. Entriamo, anzi scivoliamo nel libro, come turisti in fila. Non so quanto Lagioia l’abbia intesa in questo senso, ma l’immagine che ci viene offerta come incipit è una prefigurazione di quanto ci sta per accadere. Il Colosseo è il libro ovvero un circo di violenze efferate, mentre i turisti in fila siamo noi lettori, vogliosi di entrare anche perché sicuri che quelle violenze, seppure vere e spaventose, seppure documentate dalla storia e dalle cronache, ci toccheranno soltanto come turisti. Questa immagine risulta particolarmente efficace perché Lagioia la gestisce con maestria, ma non è di questo – delle qualità letterarie di Lagioia o altri – che voglio parlare, bensì di quel bisogno di proseguimento, di essere presi per mano e condotti, che ormai ci caratterizza in quanto lettori e scrittori.

La finzione romanzesca è un trauma che siamo meno disposti a accettare. Dico trauma perché di questo si tratta. Dico trauma perché, nel suo piccolo la finzione romanzesca, ci obbliga a sradicarci dal mondo in cui siamo abituati a vivere per entrare in uno nuovo, magari non così diverso dal nostro, ma nuovo; come andare a una festa in cui non si conosce nessuno. Lo scrittore che si degrada a persona si offre appunto di accompagnarci alla festa e presentarci agli altri invitati. Che poi tra questi vi siano feroci assassini non ci preoccupa, anzi ci tranquillizza, perché per quanto difficile sia lo spettacolo che ci aspetta, non ci dimenticheremo mai che noi siamo noi e l’assassino è l’assassino ovvero che noi siamo su un divano a leggere e l’assassino in carcere a scontare la sua pena o magari già sulla sedia elettrica, vedi A sangue freddo di Capote. Ben altra faccenda è quando lo scrittore non si degrada e ci parla per bocca di Meursault, dicendoci: «Oggi mamma è morta. O forse ieri, non so». È una differenza paragonabile a quella che esiste tra il tempo del cinema in sala e quello delle serie tv. A rendere forte la sala non era la grandezza dello schermo in sé, ma il fatto che il cinematografo fosse un luogo altro, uno spazio buio e alieno come una festa in cui si conosce nessuno. In quella alterità, anche se solo per un paio d’ore, l’oblio era possibile. Dimenticare chi sei stando a casa, dove lo schermo è un proseguimento del tuo spazio domestico, è esperienza non impossibile ma senz’altro diversa. Proviamo allora a immaginare un confronto tra romanzi stranieri e libri avversari, tra gli assassini raccontati per interposto personaggio e gli assassini raccontati dallo scrittore degradato a persona. Camus e Carrère servono soltanto come pretesto. Il confronto potrebbe vedere benissimo opposti anche un romanzo straniero di oggi come Noi, i sopravvissuti di Tash Aw e l’avversario Lagioia, tanto più che il romanzo di Aw parte sì da un immaginario caso di omicidio ma punta a descrivere la realtà malaysiana, e lo stesso vale per molti versi anche per La città dei vivi, che è soprattutto un libro su Roma. Non cerco un gioco della torre, sia chiaro. Per me, stranieri e avversari pari sono. Il confronto ha il solo scopo di sollevare una questione su cui vale forse la pena ragionare, anche su piani non strettamente letterari: Chi preferiamo, gli stranieri o gli avversari? E perché?