Quando James Ballard morì, il 19 aprile 2009, a dare l’annuncio della scomparsa fu Margaret Hanbury, la donna che da più di venticinque anni era la sua agente. Disse che Ballard era malato da tempo. Che era stato un gigante della scena letteraria per oltre mezzo secolo. Che il suo sguardo acuto e visionario della vita contemporanea si era distillato in numerosi e incisivi romanzi che gli erano valsi lo status di scrittore di culto. Di questi numerosi romanzi ne nominò però uno soltanto, L’impero del sole, che aveva vinto molti premi e era diventato un film grazie a Steven Spielberg. I maggiori quotidiani diedero la notizia impostando il necrologio sulle parole dell’agente e dunque citando, in molti casi, unicamente L’impero del sole. È la spietata legge della popolarità. Ballard era noto al grande pubblico soprattutto per quel solo romanzo, malgrado fosse molto diverso dal resto della sua produzione letteraria, quella per cui era diventato, sempre stando alla definizione dell’agente, un autore di culto. Per dirla in termini spicci, Ballard era uno scrittore di fantascienza e nell’Impero del sole non c’è nulla di fantascientifico. In effetti, L’impero del sole non è neanche un romanzo d’invenzione in senso stretto, ma piuttosto un’autobiografia in parte trasfigurata che, del romanzo convenzionale, conserva la voce distante del narrante onnisciente. È scritto cioè in terza persona, malgrado il protagonista sia appunto lo stesso scrittore o meglio il bambino di nome Jim che era Ballard all’epoca dei fatti narrati. E che fatti. «Jim aveva cominciato a sognare di guerre. La notte, sulla parete della sua camera in Amherst Avenue sembravano snodarsi gli stessi film muti che trasformavano la sua mente addormentata in una sala da proiezione vuota. Durante l’inverno del 1941, tutti, a Shanghai, proiettavano film di guerra. Frammenti di sogni seguivano Jim in giro per la città: negli atri degli empori e degli alberghi, le immagini di Dunkerque e Trobruk, dell’Operazione Barbarossa e del Sacco di Nanchino, gli esplodevano nella mente sovraccarica».

Se questo breve estratto dalla prima pagina non lo avesse chiarito, siamo agli inizi della Seconda guerra mondiale, nella Shanghai occupata dalle forze militari giapponesi. A Ballard ci era nato, in quella città nel 1930. Il padre era un chimico diventato prima direttore amministrativo e poi presidente della succursale cinese di una grossa ditta di manufatti tessili che aveva la sua sede principale a Manchester. Rimase ai vertici dell’azienda fino al 1940. Poi, con l’attacco dei giapponesi a Pearl Harbor, le cose cambiarono. Per lui e ovviamente anche per suo figlio. Da un casa enorme con servitori e la macchina con l’autista, il piccolo Jim passò a un campo di prigionia. L’impero del sole racconta dunque gli orrori di una vera guerra, di un luogo e di un momento precisi della Storia, visti attraverso gli occhi di undicenne, ma nonostante libro sembri agli antipodi dalle bizzarrie che solitamente si trovano in altre opere di Ballard, a ben guardare gli scenari che vi troviamo descritti – piscine svuotate, edifici abbandonati, cadaveri decorati con fiori di carta, le sagome argentate dei bombardieri che il piccolo Jim scorge con la coda dell’occhio mentre ha la febbre – sono immagini tipicamente ballardiane, anche se declinate in una chiave diversa da quella fantascientifica. Certo, bisognerebbe intenderci sul significato di questa parola, ballardiano. Un dizionario di lingua inglese la definisce così: «Ballardiano, aggettivo: che somiglia o evoca le condizioni descritte nei racconti e nei romanzi di James Ballard, in special modo la modernità distopica, la desolazione dei paesaggi prodotti dall’uomo e gli effetti psicologici dei mutamenti sociali, tecnologici e ambientali». Di questa definizione, ciò che Ballard avrebbe trovato più vicino alla sua personalità è pobabilmente l’ultima parte, quella in cui si accenna ai mutamenti ambientali e alle loro conseguenze sulla psiche. Malgado tendiamo a darli per scontati, stabili e duraturi, i paesaggi che ci circondano, gli ambienti in cui viviamo, non sono affatto più resistenti di noi ai colpi del tempo. La verità è che abitiamo luoghi soggetti a stravolgimenti continui e di varia natura. Alcuni di questi stravolgimenti sono il frutto brutale di eventi catastrofici: terremoti, incendi, guerre. Altri sono il frutto di attività umane più normali o quanto meno più consuete: la costruzione di un nuovo edificio, per esempio, o l’abbattimento di uno vecchio. Le città sono organismi in costante mutamento per via soprattutto della irrefrenabile inclinazione umana a modificare l’ambiente circostante, a renderlo confacente a determinati bisogni. Del resto, questa inclinazione a apportare mutamenti enormi al paesaggio se non a devastarlo è uno dei tratti che più distinguono dalle altre specie viventi. Nessun animale stravolge l’ambiente con il metodica dissennatezza dell’uomo e questa sua pulsione, se così vogliamo chiamarla, non può che avere origine nel profondo della psiche, la quale psiche non può che essere influenzata dal paesaggio e venirne mutata a sua volta.

L’interesse di Ballard per queste dinamiche parte da lontano. Risale ai tempi dell’infanzia, al periodo di internamento durante la guerra, che l’autore ricrea nell’Impero del Sole. È lo stesso scrittore a dirlo. «L’intero paesaggio di laggiù – ha dichiarato Ballard in un’intervista – ebbe una straordinaria influenza su di me, come pure l’intera esperienza della guerra. La città, le abitazioni, gli stabilimenti balneari abbandonati a cui ritorno sempre nella mia narrativa erano presenti, in effetti, nel panorama che si vedeva dal nostro campo di detenzione, che era a una quindicina di chilometri da Shanghai, in mezzo alle risaie. In precedenza quel lager era un’università. Ci fu un periodo in cui non sapevamo se la guerra fosse finita: i giapponesi avevano pressoché abbandonato l’intera zona e gli americani non erano ancora arrivati». Un campus universitario diventato lager. Luoghi che prima erano una cosa e ora sono un’altra. Luoghi in abbandono e tuttavia abitati. Un generale senso di sospensione temporale per cui non è ben chiaro cosa stia accadendo o possa ancora accadere: se – per esempio – la guerra è finita o no. Sono ingredienti tipici dell’universo ballardiano, cui va però aggiunta la particolare latitudine di quei luoghi, la loro natura semitropicale: una vegetazione lussureggiante, grandi fiumi, canali, risaie, specchi d’acqua ovunque. La combinazione di queste due cose – gli effetti della guerra da un lato e, dall’altro, la presenza così preponderante dell’elemento acquatico che pareva impregnare tutto – rendevano quel paesaggio «psicologicamente interessante» dice Ballard, «drammatico in un modo che è difficile trovare, per esempio, nell’Europa occidentale». E infatti è proprio nel dopoguerra, quando ormai adolescente fa ritorno con la famiglia in Inghilterra, che probabilmente la mente del giovanissimo Ballard entra in un corto circuito che segnerà per sempre la sua maniera di guardare il mondo e di rappresentarlo.

James Ballard visse la fase matura della sua esistenza a Shepperton, un sobborgo di Londra che fa sfondo anche ad alcune sue opere e va famoso per i teatri di posa cinematografici dove Stanley Kubrick girò 2001 odissea nello spazio. Nel soggiorno della sua casa di Shepperton, Ballard teneva appesi due dipinti. Erano le copie di quadri del pittore belga Paul Delvaux andati distrutti durante la guerra. Ci era particolarmente affezionato, tanto che in più di occasione si è fatto fotografare con alle spalle uno di questi dipinti. In effetti, non si trattava di semplice affezione, ma di affinità, di una fonte di ispirazione e identificazione. In quegli strani e notturni paesaggi abitati da enigmatiche figure femminili, Ballard si riconosceva; vi trovava quel legame tra ambiente circostante e mondo interiore che muoveva le sue storie. E non soltanto Delvaux ma i surrealisti in genere. Ballard cominciò a interessarsi a questo genere d’arte quando era ancora al liceo. «All’inizio dei miei vent’anni – ricorda lo scrittore – molto prima di iniziare a scrivere fantascienza, dovunque vivessi avevo riproduzioni di quadri surrealisti appesi alle pareti. All’epoca erano caduti completamente in disgrazia e era difficile scovare opere surrealiste. Se si apriva una mostra – di solito in una piccola galleria commerciale a Londra – non era ben recensita… Non me ne fregava niente; ero del tutto convinto che fosse una delle più importanti scuole pittoriche del secolo… Lo pensavo allora e lo penso ancora». L’interesse per il surrealismo era un riflesso di quello per la psicanalisi, che Ballard cominciò a studiare leggendo tutti i libri di Freud che gli capitavano a tiro. Da che nasceva questo interesse? Ancora una volta dal paesaggio, dall’Inghilterra in cui aveva fatto ritorno la sua famiglia dopo la guerra: «L’Inghilterra mi pareva un paese molto strano. Sia il suo paesaggio geografico, sia quello sociale e quello psicologico mi sembravano soggetti da psicanalizzare: estremamente ristretti, rigidi e repressi, paragonati alla Shanghai da cui arrivavo». Intenzionato a diventare psicanalista, Ballard si iscrive alla facoltà di medicina. Non arriverà mai alla laurea, ma assistere alla dissezione anatomica di cadaveri lascerà comunque un segno tanto sul piano temi che Ballard affronterà da scrittore, quanto e forse soprattutto su quello nello stile che adotterà, caratterizzato da una freddezza quasi metallica che fa risplendere al meglio l’altro tratto distintivo, una precisione che potremmo appunto definire anatomica. La prima avvisaglia che potesse diventare scrittore, Ballard l’aveva comunque avuta già da bambino, a Shanghai. Uno dei suoi insegnanti era solito punire imponendo agli scolari indisciplinati di copiare qualche centinaio di righe da un libro. «Ballard, per domani 500 righe» diceva. Il piccolo Ballard scoprì presto che gli risultava assai più facile inventarsi un racconto che copiarne uno da un libro, e così faceva, salvo poi sentirsi dire dal maestro: «La prossima volta, Ballard, vedi di copiare un racconto meno scadente, però».

L’esordio come scrittore di fantascienza arriva nel 1956 con un racconto di sapore decisamente surrealista, Prima Belladonna, dove si parla di orchidee cantanti e una bella donna dalla pelle dorata e gli occhi da insetto. È però soltanto negli anni Sessanta che lo scrittore si cimenta con il romanzo. Inizia nel 1961 con Il vento del nulla e prosegue negli anni successivi con altri tre libri – Il mondo sommerso, Terra bruciata e Foresta di cristallo – tutti uniti dal comune denominatore di una catastrofe naturale le cui proporzioni immani sconvolgono l’ambiente e la vita delle persone. Pur affrontando un tema ricorrente della letteratura apocalittica e fantascientifica, il disastro viene tuttavia visto da Ballard maniera inedita o quanto meno diversa dal consueto. Non è cioè inteso come una punizione calata sull’uomo per via dei suoi comportamenti dissennati. È piuttosto una via d’accesso al nostro inconscio collettivo, come se un paesaggio primordialmente trasformato rimetta l’essere umano in contatto con memorie profonde ma dimenticate, ricacciandolo a forza nei ricordi più remoti del suo patrimonio genetico e psichico. Ma più precisamente, cosa ci racconta Ballard nelle sue storie? Ci racconta per esempio di un medico di un ospedale psichiatrico che, in preda a un esaurimento nervoso, cerca di dare un senso a fatti di pubblico dominio quali la morte di Marilyn Monroe, la corsa allo spazio ingaggiata da America e Russa, l’assassinio del presidente Kennedy, attribuendogli un significato personale. Oppure di un uomo benestante, perfettamente inserito nella società, che si ritrova a vivere isolato da tutto nel mezzo di un’autostrada, imprigionato su un’isola spartitraffico in seguito a un incidente e si abitua a questa nuova e assurda esistenza alla stessa maniera in cui naufrago potrebbe abituarsi a vivere in un’isola deserta in mezzo all’oceano. Oppure di come una serie di breve blackout elettrici porti gli inquilini di un grosso condominio in una zona residenziale di Londra a dissidi sempre più continui e violenti, risvegliando in loro odi di classe e impulsi primari, fino a trasformare l’intero edificio in un’enclave di barbarie dove le normali regole della convivenza civile vengono soppiantate dal ripristino della legge primitiva del più forte. Sono per brevi linee le trame delle storie che Ballard racconta in La mostra delle atrocità, L’isola di cemento e Il condominio; storie in cui ambiente esterno e dimensione interiore giungono a compenetrarsi in un travaso incessante, fino a diventare indistinguibili.

Tra le tante, la storia che maggiormente spicca come la più perversa e al tempo stesso la più emblematica è però un’altra, quella raccontata in Crash, il romanzo più noto di Ballard dopo L’impero del sole. Pubblicato nel 1973 Crash ha avuto una trasposizione cinematografica diretta da David Cronenberg la cui disturbante visione mette a dura prova lo stomaco dello spettatore in misura non certo inferiore di quanto lo faccia il romanzo. La reazione che ebbe un lettore della casa editrice di Ballard, quando il romanzo era ancora allo stato di manoscritto, è sintomatica: «Questo autore è un pazzo incurabile. Non pubblicatelo!» E quando infine il romanzo finì sui banchi delle librerie, l’accoglienza non fu molto migliore. «Crash è il libro più ripugnante in cui mi sia imbattuto» scrisse nella sua recensione il critico del Times. A scatenare reazioni tanto accese fu il modo in Ballard rivisitava un mito del XX secolo, l’automobile. In effetti, l’automobile, per l’uomo del secondo Novecento, è molto più di un mito. È al contempo un sogno, un oggetto di desiderio, una forma di realizzazione personale e qualcosa di molto concreto, una parte essenziale, per non dire infestante, del paesaggio urbano, nonché un luogo dove le persone trascorrono parti consistenti della propria vita, e non soltanto per spostarsi da un posto a un altro. In macchina le persone fanno di tutto: pensano, parlano, litigano, mangiano, dormono, ingaggiano duelli con altri guidatori, fanno sesso e talvolta trovano anche la morte. Crash ha per voce narrante un omonimo dello scrittore, un certo Ballard, il quale, dopo essere rimasto coinvolto in un incidente nei pressi dell’aeroporto di Londra, entra in contatto con uno strano individuo, il dottor Robert Vaughan, che ha radunato attorno a sé un gruppo di alienati, tutti reduci da incidenti stradali e vogliosi di rivivere insieme al loro guru i disastri automobilistici che hanno visto coinvolte persone famose e arrivare così a una nuova forma di sessualità; una sessualità fondata sulle fantasie più perverse, su tutte il sogno più grande del dottor Vaughan, quello di morire in uno scontro frontale con l’attrice Elizabeth Taylor. Ciò che fece scandalo e generò inquietudine non va però cercato nel sesso in sé, bensì nel fatto che le perverse scene in cui l’atto sessuale diventa un tutt’uno con la collisione devastante di un incidente automobilistico mostrano in che misura la tecnologia è penetrata nella nostra intimità. E qui arriviamo al principale motivo di inquietudine, al monito, al punto di domanda che rende Ballard un autore ancora estremamente attuale: nella nostra foga di ideare e costruire macchine a nostra misura e somiglianza, non rischiamo di ottenere il risultato opposto? Non rischiamo cioè di adeguare noi alle macchine anziché le macchine a noi?