Le ossessioni possono rivelarsi non meno ingannevoli del cuore. «Imbattersi in un’ossessione è come imbattersi in una persona nella sua interezza; l’ossessione ha i suoi punti bui, a volte è inesplicabile, inquietante, sorprendente, e in altri momenti affascinante, è sia ingannevole che leale» afferma Rick Moody nell’introduzione a Il velo nero, autobiografia in forma di confessione letteraria. Tutto ha inizio nella metà degli anni Novanta, quando lo scrittore statunitense viene ossessionato dalla figura di un uomo che incontra ripetutamente sui vagoni della metropolitana di New York. Costui indossa un lungo piumino, un sorta di mantello con un cappuccio che gli scende sul volto in modo da lasciar intravedere solo il mento e una porzione di collo non sbarbato. I fetidi pantaloni di cotone e un aroma vagamente acido e nauseante lasciano pensare che si tratti di un senzatetto, uno dei tanti sballati disperati che popolano il desolato mondo delle sotterranee. Di norma simili presenze vengono ignorate dai viaggiatori, tutt’al più schivate. Moody rimane invece così colpito dall’uomo da vederci l’immagine della Morte come la rappresentava Dürer nelle sue incisioni. L’immagine gli riporta inoltre alla memoria i marinai delle tredici colonie, gli avi dalla coscienza sporca che secoli addietro fecero irruzione sul continente. Stiamo parlando naturalmente dei padri fondatori, gli spietati puritani sterminatori di streghe e indiani, coloro che hanno inventato l’America. Non potendo togliersi dalla mente l’Uomo Incappucciato, Moody chiede alle persone di sua conoscenza se per caso hanno notato anche loro lo strano fantasma della metropolitana. Risulta che tutti lo hanno visto, che è una piccola istituzione nel caotico paesaggio umano newyorchese. Quell’uomo ha fatto di sé «una celebrità chiudendo la cerniera lampo del suo cappuccio, celandosi la faccia».

Ma per quale ragione Moody ne è così ossessionato, tanto da farne la proiezione della sua tormentata coscienza, «la personificazione del medio contribuente borghese pieno di sensi di colpa»? Cos’è che fa di quest’uomo un simbolo così forte, il poltergeist di uno scrittore? La ragione va cercata molto indietro nel tempo e in particolare in un racconto di Nathaniel Hawthorne, Il velo nero del pastore, dove si narra di un certo reverendo Hooper che un bel giorno si presenta sul pulpito della chiesa di Millford vestito come si conviene a un ecclesiastico eccezion fatta per un eccentrico dettaglio, «un velo nero cinto sulla fronte e sospeso sul volto fin dove era scosso dall’alito». La stravaganza semina sgomento tra i fedeli i quali si domandano ovviamente cosa abbia indotto il reverendo, «un uomo così dedito alla preghiera, un così immacolato esempio, santo nelle azioni come nei pensieri», a nascondersi in tal modo. Il reverendo porterà il velo nero per tutta la vita, rifiutandosi perfino sul letto di morte di fornire una spiegazione chiara del suo comportamento: «Quando l’amico mostrerà l’intimo suo cuore all’amico, e l’amante alla donna amata, quando l’uomo non tenterà vanamente di sottrarsi alla vista del suo Creatore, custodendo miserevolmente il segreto del suo peccato, allora consideratemi pure un mostro per il simbolo sotto il quale sono vissuto e ora muoio! Guardo intorno a me ed ecco, su ogni volto, vedo un velo nero!» Questo strano racconto gotico, questa «parabola» — volendo usare la definizione dell’autore — è stata oggetto di disparate e innumerevoli interpretazioni nessuna delle quali ha però stabilito una volta per tutte l’effettivo significato del velo. Le uniche cose certe è che si tratta di un simbolo (perché così espressamente lo chiama il reverendo) e che la vicenda è ispirata a un personaggio reale. Sembra infatti che un altro ecclesiastico vissuto nel New England del diciottesimo secolo si sia fatto notare per una bizzarria simile. «Nel suo caso, tuttavia — spiega in una nota lo stesso Hawthorne — il simbolo aveva un diverso significato: in gioventù egli aveva ucciso accidentalmente un caro amico, e da quel giorno fino all’ora della sua morte egli nascose sempre il suo volto agli uomini».

Quell’ecclesiastico era Joseph Moody di York, nel Maine, un antenato di Rick Moody. E ciò ha implicazioni che vanno al di là della mera coincidenza. Hawthorne non è soltanto uno degli scrittori più importanti del cosiddetto Rinascimento Americano; è anche un crocevia importante per la letteratura. Nacque nel 1804 a Salem, Massachusetts, una tra le più antiche cittadine del New England e cuore della civiltà puritana che fiorì sulla costa orientale a partire dal Seicento. I suoi progenitori avevano lasciato l’Inghilterra al seguito del John Winthrop, fondatore e primo governatore della Colonia della Baia. Parlare di Hawthorne non significa soltanto parlare di letteratura ma di una dinastia che ha contribuito a modellare l’identità morale e religiosa degli Stati Uniti. E non solo. Su un piano squisitamente letterario, Hawthorne ha lasciato racconti e romanzi, tra cui il notissimo La lettera scarlatta, che pur rispettando la «verità del cuore umano», sono in larga parte espressione della fantasia. Egli è stato in sostanza uno dei primi scrittori, insieme a Poe e Melville, a seguire quel principio estetico per cui viene ritienuto legittimo mischiare il piano della realtà con quello della finzione senza che ciò debba inevitabilmente comportare una perdita di credibilità o verosimiglianza. In un certo senso è stato un padre fondatore di una attitudine narrativa tipicamente americana che ha conosciuto il suo più parossistico apogeo con il postmodernismo. A tal proposito, coincidenza vuole che il romanzo La casa dei sette abbaini ruoti intorno alla maledizione che grava su una certa famiglia Pynchon. Non sorprende quindi che l’apparizione dell’Uomo Incappucciato sia diventata, oltre che un’ossessione privata, il motore scatenante del Velo nero. Il libro, lo si è detto, è sia ingannevole che leale. L’autore lo definisce nel sottotitolo un «memoir con digressioni» e specifica nell’introduzione di essere partito dall’idea del velo per dare un’immagine alla storia della propria vita e, per estensione, della sua famiglia. In effetti di questo si tratta, di un’autobiografia scritta con metodo insolito, «a ritmo di spasmi», più vicina all’epilessia che alla narrazione. È leale perché Moody si denuda in modo spietato riferendo nei minimi dettagli i suoi lati più oscuri, a cominciare da dall’abuso di alcol e dal patologico solipsismo che in gioventù lo costrinsero al ricovero in una clinica psichiatrica. Ma è anche ingannevole perché nella meticolosa ricostruzione di vicende personali trovano spazio divagazioni e decine di citazioni più o meno mimetizzate nel testo che hanno l’effetto di collocare tutto in una dimensione estremamente letteraria, quasi che lo scrittore cerchi di nascondersi all’interno della sua stessa confessione.

Del resto, quello del camuffamento è un tema ricorrente nell’opera di Rick Moody. Che siano i costumi disneyaini di Demonology o la «maschera di pollo» dell’uomo sandwich della Villa sulla collina o le ipocrisie dietro cui si nasconde la famiglia di Tempesta di ghiaccio, per un verso o per l’altro, Moody ha sempre parlato di «veli neri», di dissimulazioni tese a nascondere macchie e peccati che l’individuo sente di dover scontare in eterno come una maledizione. Anni fa ha perfino ideato un fumetto in cui immaginava se stesso prendere a nolo un corpo che gli facesse le veci nella vita. La storia proseguiva con il corpo che, non reggendo allo stress di impersonare un’altra persona, comincia a dare di matto. Ma al di là delle tante variazioni sul tema, il «vero» velo è per Moody un modo di scrivere. Mimetizzando l’autobiografia nella finzione e viceversa, stilando lunghi elenchi di oggetti e sensazioni, ponendo sfilze di dubbi e domande, egli dà vita a prosa che sembra procedere a tastoni. «Un individuo non è fatto di pensieri semplici e trasparenti. L’interno di una coscienza è sempre in disordine, come una libreria con tutti i volumi fuori posto». Moody si orienta in questo labirinto rifiutando strutture prestabilite, si lascia andare al flusso della voce interiore e mette ordine attraverso processi spesso intuitivi, quasi rabdomantici. Ed è alquanto significativo che il suo successivo romanzo, The Diviners, parli di un produttore che intende realizzare una serie televisiva sui rabdomanti nella storia umana. Questa idea di una letteratura al limite della divinazione sembra stonare con il mondo di uno scrittore che si sente americano fino al midollo ovvero uno a cui piace schiacciare i tasti del telecomando quando guarda la tv, uno che a volte non riesce né vuole distinguere tra cultura alta e cultura bassa, uno a cui è capitato più di una volta di mettere piede in un centro commerciale. Non per nulla, quando egli racconta del suo tentativo di rifare il velo nero con un pezzo di stoffa acquistato da Wal-Mart è difficile non restare sconcertanti. Cosa spinge un raffinato scrittore a essere tanto ingenuo e blasfemo da pensare che gli strumenti per scavare all’interno di sé e della propria storia famigliare si possano davvero trovare in un supermercato? È per via dell’inguaribile propensione degli americani verso il consumo e la volgarità pop? In assoluto forse sì, ma nello specifico caso di Rick Moody la ragione è un’altra: la sua profonda onestà. Egli è talmente scoperto nelle proprie intenzioni da mettere tranquillamente in mostra anche la parte che gli scrittori tendono in genere a fingere di non vedere: il loro strisciante e malcelato narcisismo. Egli ammette senza troppi problemi che depressione, alcolismo, solipsismo e tormenti vari presuppongono una discreta componente di vanità se li usi per fare colpo sugli altri, per darti un tono, un’immagine maledetta dietro la quale nascondere altri e più autentici peccati.

I veri peccati, già. Ma quali sono i veri peccati? Come si fa a raccontarli? Ed è poi davvero giusto raccontarli fino all’estremo? Liberarsi di gesti e pensieri non è forse scrollarsi di dosso il fardello di quell’assunzione di responsabilità che ogni senso di colpa inevitabilmente comporta? Quanta dignità c’è nel molle conforto della confessione? Domande e dubbi che Rick Moody non pone in maniera esplicita ma che risultano evidenti dal suo continuo divagare, da come inizia raccontando qualcosa di molto intimo per poi finire a parlare di tutt’altro, che so, di storie d’indiani oppure di avvistamenti di dischi volanti o di una certa canzone di Elton John. Partito con l’intenzione di scrivere un libro nel quale non avrebbe nascosto niente, Rick Moody conclude stilando un elenco delle cose che ha lasciato fuori dalla sua confessione. È un elenco lungo e ciò nonostante parziale. La cosa impressionante non è la sua mole ma il fatto che tutte quelle omissioni non riguardano aspetti marginali ma il cuore dell’uomo Moody. «Le varie persone che ho baciato in questi anni, le difficili descrizioni dei loro baci, tutto lasciato fuori, come guadagno e spendo i soldi, come li spenda stupidamente, se si tratta veramente di questo, le imprese finanziarie che sostengo, il mio commercialista, sono stati tenuti fuori, dove faccio la spesa, lasciato fuori, che generi alimentari acquisto, se uso lo shampoo, il balsamo, o entrambi… completamente lasciati fuori». E così via. Eppure, nemmeno nell’atto finale di compilare questa lista di omissioni più o meno rilevanti, lo scrittore non può fare a meno di indulgere in una perversa forma di vanità. Perché la lista è bella, poetica, straziante, musicale. In una parola, è letteratura e dunque solo in parte autentica. Ma se così è, in cosa consiste l’utilità di scrivere una biografia che procede per elisioni divagazioni e progressivi oscuramenti? «Forse — conclude Moody — si tratta semplicemente del fatto che nascondere qualcosa è essenziale all’identità, che, nonostante le mode culturali conducano verso programmi basati sulla realtà, nonostante i talk show e le tavole rotonde alla radio e le loro opportunità confessionali, abbiamo bisogno che una parte di noi non venga mai svelata, perché più riveliamo qualcosa di noi stessi, più ci avvolgiamo in veli, strati che rifiutano di farsi conoscere, tegumenti aggiuntivi di colpa e occultamento, in modo che ogni ricordo diventi una fiction, un racconto ritoccato, un Bildungsroman, proprio come molte fiction non sono che ricordi velati; le due identità, le due strategie narrative, nascondere e rivelare, dipendono una dall’altra e si escludono a vicenda». Un critico americano ha affermato che questo «memoir con digressioni» parla più del velo che del suo autore. Niente di più falso. Il velo nero è Moody dalla prima all’ultima riga e anche quando divaga su Hawthorne e lo scuro fazzoletto che il reverendo porta calato sul volto, ciò che davvero conta è il movimento ossessivo delle divagazioni, il modo contorto e ombroso attraverso il quale la coscienza si dipana e acquista forma nella pagina scritta. Probabilmente è vero che nella sua opera più narrativa, come per esempio nei perfetti racconti di The James Dean Garage Band, Rick Moody dica molte più cose su di sé di quante non ne riveli nella sua confessione, che finga meno — si perdoni la facile battuta — nella fiction. Ma tutto sommato conta davvero qualcosa? Non è forse questo ciò che ci aspettiamo dalla vera letteratura: la dignità della menzogna? Non è vero che, a ben guardare, non sono né il cuore né le ossessioni a essere ingannevoli, bensì le confessioni?