Spesso posto ai confini del genere fantascientifico e pertanto sempre o quasi sempre letto per ciò che ha o si ritiene abbia anticipato, Millenovecentottantaquattro di George Orwell riserva in effetti aspetti ben più complessi, alcuni dei quali più prossimi alla narrativa horror che alla fantascienza. Provo allora a chiedermi come andrebbe affrontato il romanzo, sul piano della traduzione, qualora lo si leggesse alla stregua di un libro nero e non più soltanto come un monito politico rivolto al futuro. Come molti altri miei colleghi le cui versioni sono apparse appena l’opera di George Orwell è entrata nel pubblico dominio, ho lavorato alla traduzione di 1984 durante la pandemia. Nel febbraio dello scorso anno sono partito per un’isola nel sud-asiatico. In quei giorni il virus sembrava ancora una questione perlopiù cinese e pensavo di trattenermi all’estero soltanto un paio di settimane. Andavo sì in un luogo quasi orwelliano, non lontano dalla Birmania in cui lo scrittore aveva prestato servizio nella Polizia Imperiale, ma non pensavo che le coincidenze si sarebbero andate molto oltre. In pochi giorni è accaduto l’impensabile. Mentre ero via l’Italia è diventata zona rossa, i voli venivano cancellati uno dopo l’altro, la Tailandia, come del resto tutti i paesi del sud-asiatico, ha blindato i suoi confini, imponendo restrizioni quali il coprifuoco che allora apparivano ancora estranee e irreali, confinate a un passato per noi lontano e mai vissuto in prima persona o ai romanzi di fantapocalisse. Dopo un momento di apprensione iniziale mi sono reso conto che il paese in cui sarei rimasto bloccato per sei mesi era, almeno dal punto di vista sanitario, sicuro o comunque decisamente più sicuro del mio. La Tailandia restava tuttavia governata da una giunta militare e sentire ogni notte il motore delle camionette che pattugliavano le strade, vedere il bagliore rosso dei lampeggianti stamparsi a intervalli sul muro della camera in cui dormivo mentre il mondo pareva sull’orlo di un precipizio, mi ha catapultato in una dimensione angosciosa che finora avevo sperimentato soltanto nei film.

Non molto tempo prima avevo letto il romanzo di un’autrice americana di origini cinesi, Febbre di Ling Ma, dove una febbre pestilenziale decimava la popolazione trasformando i morti in zombi. Nelle prime pagine del romanzo, un personaggio diceva: «Quando ci si risveglia in un mondo che sembra immaginario, l’unico riferimento che si può usare sono le opere frutto di immaginazione». Parole che mi riportavano alla mente altre, pronunciate da un uomo, Alfred Hitchcock, che è sempre stato un mio riferimento imprescindibile: «Cos’è la realtà? Penso che tanta gente non voglia la realtà. Credo che quanto vediamo a teatro o nei film debba sembrare reale senza però esserlo davvero. Perché nessuno di noi è realmente in grado di sopportare la realtà. In ogni momento». Parole su cui riflettevo da tempo ma il cui senso profondo mi è apparso evidente soltanto in Tailandia, con lo scoppio della pandemia. Non che prima il senso mi sfuggisse; riuscivo però a coglierlo soltanto in linea teorica, con la ragione, perché mi sembrava una considerazione intelligente e persuasiva o forse perché coincideva con ciò in cui volevo credere, con il mio intendere la natura umana e lo spirito dei tempi. In quel periodo riflettevo peraltro sul grande successo della miniserie televisiva che la HBO aveva dedicato alla catastrofe di Chernobyl. Mi stavo inoltre interessando al fenomeno degli accessi clandestini alla zona contaminata, chiedendomi cosa attirasse le persone in un luogo potenzialmente nocivo alla loro salute e tra le risposte che mi davo vi era appunto l’ipotesi proposta da Hitchcock ovvero che la nostra voglia di realtà è solo apparente perché ciò cui davvero desideriamo, anzi speriamo, è che vi sia un modo di eluderla, la realtà, di spostarci altrove, soprattutto quando la realtà si manifesta con la sua faccia più truce e ci presenta il conto. Mi dicevo allora che l’attrazione per Chernobyl si spiegasse con il bisogno di sopravvivere all’apocalisse, là dove la fine del mondo serviva ovviamente a esorcizzare qualcosa di assai meno significativo per il pianeta ma di primaria importanza per il singolo individuo, la finitezza della vita umana. Fare il turista tra i ruderi di un’apocalisse equivaleva un po’ a mettere piede sulla luna: una piccola e illusoria fuga per un uomo, un grande disastro per l’umanità. Un aspetto non secondario delle mie riflessioni riguardava il luogo in cui era avvenuto il disastro. L’Unione Sovietica ormai prossima alla disgregazione e al collasso incarnava il crepuscolo di un crogiolo di orrori, un tempo in cui era possibile pensare che le minacce importanti venissero tutte da un luogo preciso anche se oscuro e poco conosciuto, l’impero del male situato al di là del muro, oltre cortina come si diceva ai tempi. L’Unione Sovietica aveva inoltre restituito alla Russia e zone limitrofe un’immagine di barbarie appannatasi grazie a Tolstoj, Dostoevskij e altri grandi scrittori che di barbaro avevano ben poco. Per provare a spiegarmi, mi rifaccio a ciò che disse Lafcadio Hearn sul finire dell’Ottocento in occasione di una lezione tenuta all’Università di Tokyo: «Quando ero ragazzo, la gente non sapeva assolutamente nulla di rilevante sulla Russia se non che i soldati russi fossero dei combattenti fortissimi. Ma, per quanto gli inglesi li possano ammirare, quelle qualità militari si trovano anche nei selvaggi e l’esperienza inglese con le truppe russe non ha fornito alcun motivo per averne una così alta ammirazione. Infatti, fino alla metà del nostro secolo i russi erano a malapena considerati in Inghilterra come appartenenti alla specie umana. Quel poco che si conosceva delle usanze e del governo russi non era in grado di modificare un sentimento ostile, anzi piuttosto il contrario. Le crudeltà della legge militare, gli orrori delle prigioni in Siberia, di cui si parlava spesso: troverete dei riferimenti all’estrema ferocia della Russia perfino nelle prime poesie di Tennyson, persino nel testo The Princess».

Mi ero insomma fatto l’idea che l’Unione Sovietica – vuoi perché non esisteva più, vuoi perché riesumava fantasmi antica, un’inquietudine suscitata da ciò che si trovava a oriente dell’Europa e di chi credevo di scorgere tracce un po’ ovunque nella letteratura del nostro continente, a cominciare da Clawdia, la chirghisa che turba il giovane Castorp nella Montagna Incantata – fosse un luogo ideale per esorcizzare ciò che più ci spaventava, quanto di più orribile ci potesse capitare. La pandemia ha fatalmente amplificato questa congerie di pensieri; per molti versi ne ha rivelato la fondatezza ma ciò, anziché aiutarmi, complicava le cose. Per molte sere, nella primavera dello scorso anno, con in testa le immagini dei camion militari carichi di bare e del Papa solo in piazza San Pietro sotto un cielo fosco come forse non ne avevo mai visti, mi sono coricato con la speranza che fosse tutto un brutto sogno e che al mattino dopo mi sarei svegliato lasciandomi quell’incubo alle spalle. Hitchcock aveva ragione, «nessuno di noi è realmente in grado di sopportare la realtà» e questo neanche quando, come nel mio caso, si dispone di una conoscenza letteraria e cinematografia tale da non dover restare stupiti, almeno in teoria, di fronte a un rivolgimento di scala planetaria. Ciò che stava capitando lo avevo visto e letto in decine e decine di film e romanzi, eppure questo sapere non era di aiuto. Coricarsi sperando che fosse tutto un sogno era come chiedere alla realtà di tornare a essere un film o un romanzo. Una sensazione inedita per me e, immagino, per tanti altri, nonostante fosse pressoché identica o comunque assimilabile agli stati d’animo, all’angoscia di tanti personaggi che conoscevo bene, a cominciare dal protagonista di Millenoventottantaquattro, Winston Smith. È stato appunto nella primavera dello scorso anno, all’esplodere della pandemia, in Tailandia e con questi pensieri in testa, che ho lavorato alla traduzione del romanzo di Orwell. In quei mesi, ma anche in seguito, mi è inoltre capitato più volte leggere che il lockdown imposto dall’emergenza preparava il terreno a una nuova società di tipo orwelliano chiamata dittatura sanitaria. Malgrado pandemie e virus non rientrassero tra gli argomenti trattati, il libro veniva considerato profetico, anticipatore del presente. È un destino che lo accompagna da sempre. È da quando l’ho scoperto che ne sento parlare in questi termini e visto che la mia prima lettura del libro risale ai tempi in cui frequentavo ancora le scuole medie, ossia a decenni fa, il fenomeno è dir poco paradossale. Una volta avveratasi, infatti, una profezia dovrebbe esaurire il proprio compito. Se ciò non avviene, non restano che due ipotesi: o il mondo è rimasto lo stesso o la profezia non si è in effetti ancora avverata. Che il mondo sia rimasto lo stesso è da escludere. Da quando Millenoventottantaquattro è uscito, il mondo è cambiato molto e in molti modi, il che sembra lasciare in piedi soltanto la seconda possibilità, la quale però pone un problema di non poco conto, perché se quanto di anticipatore avevamo pensato di scorgere non è la vera profezia, vuol dire che fino a oggi ci è sfuggito il senso del libro, che lo abbiamo letto senza capirlo. Anche questo, sebbene difficile da accettare, è più che possibile.

A ben guardare però, potremmo avanzare un’altra coppia di ipotesi: che il romanzo non sia affatto profetico oppure che la sua sia una profezia mutante. Se fosse vera la prima, ritorneremmo al punto di partenza ovvero all’eventualità che finora non abbiamo capito niente; che abbiamo scambiato Orwell per ciò che non era, un profeta. La seconda rischia invece di essere presa come eresia pure dagli orwelliani di ferro o anche soltanto da chi, non senza ragione, crede la prima intenzione dell’autore fosse quella di lanciare un monito politico. In effetti, anch’io per molti anni ho letto Millenoventottantaquattro in questa chiave pur scorgendovi altri temi, forse meno evidenti ma più profondi; temi che che gli hanno concesso di sopravvivere alle delusioni della rivoluzione tradita e agli orrori del regime sovietico. E non mi riferisco ovviamente al tema di una società della sorveglianza e della mistificazione ovvero al tema che più di ogni altro gli ha consentito di apparire attuale anche dopo la guerra fredda e l’avvento di internet. I primi mesi della pandemia mi hanno rivelato un libro ancora diverso. I vecchi temi erano ancora tutti al loro posto ma altri sembravano emersi da nulla, temi nuovi che andavano dritti al cuore delle nuove angosce di un mondo stravolto e erano così preponderanti, questi nuovi temi, da far sembrare quelli vecchi secondari se non irrilevanti. Per dirla più chiaramente, avevo la sensazione che il libro mi svelasse per la prima volta la sua vera natura. Possibile che quei nuovi temi fossero sfuggiti alle precedenti letture come la lettera in bella mostra del racconto di Poe? Possibile sì, tenendo conto che gli eventi stavano certamente cambiando il mio sguardo e che, più in generale, non leggiamo mai lo stesso libro, un po’ come non ci bagna mai due volte nello stesso fiume. E tuttavia, anche ammettendo che ero io vedere il romanzo in una luce diversa, il fenomeno era troppo intenso per poterlo ridurre a un problema di percezione. Se davvero soltanto di questo si trattava, infatti, il fenomeno avrebbe dovuto valere anche per altri libri, mentre Millenovecentottantaquattro pareva favorirlo in modo particolare, per non dire unico e straordinario. Sono così giunto all’ipotesi eretica del libro nero; nero nel senso magico del termine ovvero gotico, orrorifico. Sono cioè all’idea che la sua incredibile duttilità, a plasmarsi a seconda del mutare dei tempi e delle nuove letture, si dovesse alla sua capacità di agire su di noi come uno specchio delle nostre brame e paure, trasformandoci nella regina della favola di Biancaneve. Il mito del Grande Fratello ha distolto l’attenzione dai lati oscuri del protagonista, che in realtà è meno vittima di quanto tendiamo a figurarcelo. Se ci attenessimo a ciò che è scritto nel romanzo, se evitassimo di proiettare sulla figura del Grande Fratello ciò che crediamo voglia simboleggiare, ci troveremmo con molte più incertezze su chi sia il vero cattivo del romanzo. In realtà, la stessa esistenza di Big Brother è dubbia, lo conosciamo soltanto in forma immagine ma è proprio in virtù della sua inquietante ambiguità circa l’effettivo nocciolo del male che il romanzo riesce a agire su di noi come uno specchio mascherato. Forse, se in qualità di traduttori italiani tenessimo presente che il nome del protagonista, Winston Smith, è una sorta di crasi in cui perversamente si fondono l’uomo di potere Winston Churchill e il signor Smith, l’uomo qualunque, se avessimo cioè il coraggio di rendere quel nome per come in effetti dovrebbe suonare all’orecchio italiano, Benito Rossi, questo aspetto ci risulterebbe più evidente. La speranza con cui mi coricavo in Tailandia – che la pandemia fosse un brutto sogno – è in sostanza la stessa di Winston Smith: la speranza che la realtà sia diversa da come ci appare e ciò a prescindere dal fatto che la realtà venga manipolata e falsificata da entità superiori. Orwell si era posto il problema della speranza, anzi lo riteneva un aspetto nodale. Malgrado non credesse in Dio, riteneva che l’ateismo socialista spianasse le porte al totalitarismo perché senza la promessa di una seconda vita, senza la garanzia di un risarcimento oltremondano per i torti subiti e le pene patite su questa Terra, l’individuo avrebbe perso la speranza e dunque qualunque ragione di accettare l’autorità temporale, la quale autorità si sarebbe dunque vista a sua volta costretta a governare il popolo con la forza. Un uomo senza speranza è una mina vagante. Chi è preso dalla disperazione può rivelarsi capace di qualunque cosa e va pertanto represso.

Orwell non forniva una risposta al problema, come non la fornisce il suo romanzo, ma ciò non gli impediva di vedere che eliminare un vuoto rimpiazzandolo con un altro vuoto non è una soluzione. Pensiamo a ciò che incarna la figura di Goldstein, il quale, come il Grande Fratello, non è una persona in carne e ossa ma soltanto un libro apocrifo, un falso dio. Pensiamo all’assonanza fonetica tra god (dio) e gold (oro), non certamente casuale. Definire distopico Millenovecentottantaquattro equivale a collocare il romanzo nel più ampio genere della fantascienza. Per certi versi, almeno nel parlare degli addetti ai lavori, il termine distopia va oggi sempre più soppiantando, spesso impropriamente, fantascienza. Ci sarebbe molto da ragionare al riguardo, sul perché molta narrativa mainstream venga detta distopica quando è semplicemente fantascientifica – forse perché dicendo distopico si crede di conferire alla fantascienza una dignità superiore – ma limitiamoci a fare il contrario, proviamo cioè a immaginare cosa accadrebbe se definissimo Millenovecentottantaquattro un romanzo di fantascienza. Non ci suonerebbe forse stonato? Cosa c’è difatti di davvero avveniristico nel mondo immaginato da Orwell? Nulla tranne gli schermi controllori e l’anno in cui si svolge l’azione, che è però il riflesso invertito del presente e viene peraltro presentato in parola nel titolo. Anche il sistema totalitario che opprime le persone, pur alludendo chiaramente alle storture della Russia sovietica, ha un che di ancestrale e sembra attingere a memorie antiche, alla Russia misteriosa di cui parlava Lafcadio Hearn e che il regime staliniano, con i suoi orrori e la sua inaccessibilità, sembrava avere rivivificato. Per queste e altre ragioni, più che fantascientifico o distopico, se lo si legge per ciò davvero racconta e descrive, Millenovecentottantaquattro è un romanzo dell’orrore o, per meglio, dire horror; somiglia più a Frankenstein di Mary Shelley che non a La guerra dei mondi di H. G. Wells. Non è horror in senso stretto ovviamente né lo è del tutto, ma in buona parte lo è e proprio questo suo lato gli ha consentito di agire come un libro mutante seguitando a restare sempre profetico. È proprio delle storie dell’orrore, infatti, di agire come specchi; storie che prima di mostrarci qualcosa di spaventoso, si offrono quale riflesso, rendendoci visibile ciò che nel profondo ci spaventa. D’altro canto la lettura che propongo non è nuova né tantomeno mia. Già prima che il libro uscisse, l’editore Fredric Warburg presentava il romanzo ai suoi colleghi in questi termini: «tra parentesi, 1984 potrebbe essere descritto come un romanzo dell’orrore». Dice testualmente horror novel e parla anche della possibilità di ricavarne un film – dell’orrore, si intende – film che, «se passasse il vaglio della censura, metterebbe al sicuro per mille anni i paesi minacciati dal comunismo». La sottile distinzione che può comunque essere fatta tra horror e orrore ovvero tra una narrazione ascrivibile al genere vero e proprio e una costruita sugli orrori equivale a quella che esiste tra Millenovecentottanquattro, il titolo che lo scrittore aveva scelto e 1984, quello che si è imposto col tempo. È probabile che Orwell non pensasse affatto di scrivere un horror e tuttavia si serve di molti stratagemmi della letteratura gotica, a cominciare dall’importanza che rivestono fin dalle prime pagine la parola scritta e l’atto dello scrivere. Per non parlare dei tanti altri libri che il romanzo contiene al suo interno, come in una sorta di matrioska vi troviamo prima il diario di Winston, poi il libro di Goldstein e alla fine, giunti alla famosa appendice, lo stesso Millenovecentottanquattro.

E che dire di come i libri acquistano valore, fascino, potere suggestivo per il semplice fatto di essere libri, a prescindere di quanto vi è scritto, semplicemente in quanto oggetti cioè? Non è forse vero che il libri sono magici per definizione? Quanto ai motivi gotici, basterà ricordare la rilevanza dello spazio domestico, le relazioni famigliari, l’infanzia, il piccolo che Winston che lascia morire di fame la sorellina. In Millenovecentottantaquattro sembra mancare l’ingrediente più tipico se non imprescindibile del genere gotico, la casa. Quella in cui vive Winston Smith non ha nulla del focolare, non si presenta certo calda accogliente e protettiva come le case delle storie dell’orrore, nidi domestici che immancabilmente si trasformano in ricettacoli d’incubi e minacce delle storie dell’orrore. La casa quale sommo rifugio la ritroviamo soltanto nella parte finale del romanzo, nella stanza che Smith prende in affitto dal rigattiere. È però un surrogato che peraltro si rivelerà una trappola. L’orrore del mondo immaginato da Orwell si manifesta in un primo momento nell’assenza costante del focolare. Vivere in Millenovecentottantaquattro sembra orribile perché la casa non è più una la badia del proverbio. A ben guardare però neanche la casa del mondo precedente, quella in cui Smith è cresciuto, lo era né tantomeno lo è la stanza del rigattiere, malgrado faccia da scenario all’unico momento felice del romanzo, salvo ovviamente la gita in campagna di cui la stanza rappresenta il coronamento. Che lo faccia consapevolmente o no poco importa, il fatto resta: Orwell impernia la storia sulla casa, come si conviene a una storia gotica, ribaltandone i termini, ponendo cioè alla fine, l’illusione del focolare, ciò che nelle storie gotiche è a posto all’inizio e serve a preparare il terreno all’orrore, a offrire al mostro un’armonia da rompere. Fosse stato un semplice monito sui pericoli di un futuro eventuale, fosse stato cioè un romanzo di fantascienza in senso stretto o una distopia, come si preferisce dire, difficilmente Millenovecentottantaquattro avrebbe colpito tanto nel segno, diventando un classico ovverosia un libro particolarmente longevo e capace di mutare nel tempo, sembrando sempre profetico, malgrado guardasse più al presente se non addirittura al passato, come si conviene a una ogni buona storia dell’orrore.