Ha senso chiedersi quanto V13 sia diverso dai precedenti libri di Carrère? Ho letto che questo scrittore, famoso e chiacchierato soprattutto per come fa di sé stesso la materia o la lente di tanti suoi libri, avrebbe deciso di tenere un profilo meno narcisista del solito perché il gioco di quella che chiamano autofiction avrebbe cominciato a mostrare la corda. Può darsi. Ho letto anche che V13 è scritto come è scritto perché non sarebbe stato concepito come libro, perché raccoglie articoli comparsi su un giornale che aveva incaricato Carrère di seguire il processo degli attentati avvenuti a Parigi il 13 novembre 2015. Può darsi anche questo ma nutro qualche dubito. In realtà nel corso degli anni, anzi dei decenni ormai, Carrère ha scritto libri di ogni genere, passando dal romanzo puro all’autofinzione, dalla biografia pura di Io sono vivo e voi siete morti alla biografia ibrida di Limonov, dal saggio val giornalismo, spesso mescolando o comunque dosando registri diversi in uno stesso libro e perfino in uno stesso articolo. È inoltre poco probabile che uno scrittore come Carrére decida di farsi da parte solo perché scrive per un giornale. Sempre poco probabile è poi che di fronte alla prospettiva di seguire per quasi un anno il processo del secolo, come veniva annunciato in Francia in quei giorni, egli non abbia pensato fin da subito di ricavare un libro da quella esperienza e che gli articoli siano stati dunque scritti avendo in testa non tanto il libro – cosa evidentemente impossibile – quanto la certezza, la volontà di giungere a un libro. Che questa fosse la prospettiva salta evidente già nella prima pagina, tutta rivolta al futuro. Il primo giorno del processo come un primo giorno di scuola. Il metal detector come la porta della classe. L’attraverseremo ogni giorno per un anno, scrive Carrére al plurale perché come a scuola avrà dei compagni, dei quasi colleghi, giornalisti il cui badge con il cordoncino di un preciso colore è un po’ come il grembiule con il fiocco di una volta. È tutta al plurale questa prima pagina, salvo la sua conclusione, dove Carrère si chiede Riuscirò a resistere? Si è infatti imposto di venire al processo sempre, ogni giorno e non soltanto quelli delle udienze salienti. Si è imposto un impegno, un luogo in cui andare ogni giorni con un preciso scopo, come si va a scuola o in un ufficio, e una disciplina, prendere appunti, scrivere un articolo a settimana, articoli che avranno sempre la stessa lunghezza. Questa regolarità, questa misura costante e prefissata si percepiscono anche nel libro, anzi si percepiscono proprio nel libro e nonostante gli inevitabili rimaneggiamenti, perché a differenza del giornale, qui è possibile leggere i diversi giorni come un flusso continuo. Quando si chiede se resisterà Carrère si pone insomma una domanda chiaramente retorica. Va da sé che resisterà, è lì per quello, per resistere. Andrà a ogni udienza e consegnerà i suoi pezzi con la puntualità di un vero giornalista. Ciò che in realtà si sta chiedendo è cosa diventerà. Sa bene infatti che sarà l’andamento del processo a guidare il gioco. Lo scrittore può soltanto decidere se starci o no, può darsi delle regole ma non dettarle. In un simile quadro, che senso avrebbe contenere il narcisismo solo per semplice calcolo, per convenienza o distinguere questo libro dai precedenti? Se davvero fosse questo il problema sarebbe più sensato e palpabile togliersi di mezzo del tutto e non seguitare a dire io, a rendersi visibile al lettore, come invece fa Carrère. Se l’io appare contenuto è perché soltanto perché sa che può sfuggirgli di mano in questo gioco troppo governato da forze esterne. Lo imbriglia allora prima di cominciare, gli impone dei paletti ed è proprio questo che sottintende quando si chiede se resisterà: riuscirò a restare nella parte? Per mantenere il registro, si assegna infatti una parte, quella del giornalista spettatore, del testimone preventivo. Il personaggio che con consumato mestiere Carrère interpreta in V13 – perché si tratta di un vero e proprio personaggio – è ciò che tiene in piedi il libro e ne fa una lettura che in più di un momento toglie fiato e strappa anche lacrime, tanto si viene scaraventati nella tensione di quell’aula. Si dirà che i fatti narrati e le parole delle parti hanno un peso enorme, vero, ma lo hanno soprattutto perché, con il suo personaggio visibile solo a tratti e per il resto quasi impalpabile, in disparte, confuso tra il pubblico, lo scrittore conferisce sostanza al rito della rappresentazione. Giorni fa, vedendo spuntare dalla mia tasca il rosso della copertina su cui l’editore ha riprodotto un Concetto spaziale di Fontana, un amico mi ha chiesto se fosse il nuovo Carrère, se lo stessi leggendo. È bello? ha chiesto. Ero a un passo dal dire sì, ma come potevo? Sembrava osceno e morboso definire bello un libro in cui descrive la ricostruzione di una strage. Non ero ancora arrivato alla pagina in cui si parla proprio di quanto sia non solo terribile ascoltare questa serie di testimonianze ma anche magnifico. “A questi giovani – poiché sono quasi tutti giovani – che si avvicendano alla sbarra, gli si vede l’anima. Siamo grati, spaventati, arricchiti” scrive Carrère sempre oscillando tra l’io e il noi. In questo suo continuo emergere dal pubblico per poi riaffondarvi, in questa intermittente invisibilità, si manifesta la verità del processo, verità che consiste nell’essere una ripetizione viva, un teatro della crudeltà. Lo scrittore si chiede in sostanza cosa sia la giustizia, che senso abbia mettere in scena un fatto, replicarlo giorno dopo giorno come si fa con drammi e commedie a teatro. Può sembrare una domanda assurda, dalla risposta fin troppo scontata: si ricostruisce per accertare la verità e punire così i responsabili. Ma siamo proprio sicuri che il fine profondo sia la giusta pena e non il mezzo, il teatro, la catarsi della rappresentazione? Pensiamoci: esci una sera con gli amici e finisci proprio nel locale dove un perfetto estraneo ha deciso di eliminare te e un bel po’ di altre persone. Da un lato il caso, dall’altra una determinazione folle, in mezzo ci sei tu. Giustizia è trovare il nesso tra questi due estremi o almeno qualcosa che gli somigli. “Ho cercato di capire perché dei giovani decidano, così, di sparare su altri giovani. Non capisco, forse non c’è niente da capire Ma sono contento che siano ascoltati. Sono contento che questo processo si tenga” dice una delle vittime al termine della deposizione. E mentre lui guarda gli imputati per un attimo e poi la Corte, il pubblico guarda lui tra cui siede Carrère che scrive queste poche parole in cui è racchiuso il senso di un libro nonostante tutto bello: “Che ci parlino è già giustizia.”